Israele
E fu sera e non fu mattino...
di Alessandro Treves
Venerdì 14 febbraio 2020, verso le 10 del mattino. L’autobus si è fermato su una collina della Samaria, non lontano dal cancello giallo all’ingresso dell’insediamento di Kfar Tapuach. Ma non si è fermato nell’attesa che lo aprano e ci facciano entrare nella colonia che, appollaiata sul crinale, è nota soprattutto per l’alta concentrazione di kahanisti fra i suoi mille residenti. Né si è fermato per volontà di chi ci viaggia. Che questa volta include, oltre ai soliti volti anziani che si vedono prendere parte a iniziative di questo genere, anche un buon numero di giovani. Con gli altri due autobus, che arrivano poco dopo da Gerusalemme e da Rosh HaAyin, saranno un 120 persone. Pare che tre macchine con i rabbini, che erano arrivate prima, siano state lasciate passare. C’è chi assicura che faranno passare anche noi, che il comandante dell’unità si è solo spaventato nel veder arrivare tanta gente, se ne aspettava molta meno. Ferve una trattativa. In fondo, gli organizzatori sono i Rabbini per i Diritti Umani, non propriamente un’organizzazione terroristica. Quando però si sente dire che sono stati coinvolti i famosi avvocati Michael Sfard e Gaby Lasky, si intuisce come l’ostacolo possa essere più in alto del giovane ufficiale che si trova a gestire la situazione sul posto.
La sera prima, in un locale di Ramat Aviv, eravamo solo una dozzina; e anche se il tema era del tutto diverso, si condivideva nell’aria vagamente cospiratoria lo stesso desiderio di vedere, con i propri occhi, come stanno le cose. La dott.ssa Mariuccia Krasner ci raccontava dell’edizione curata da Reuven Bonfil del Sefer Malwè ve-lowè, un testo in ebraico del tardo Quattrocento che doveva servire da manuale a chi veniva avviato al prestito. Non un libro da diffondere, dunque, bensì un testo riservato ai rampolli delle due famiglie ashkenazite che erano riuscite, in quegli anni a Padova, a rimpiazzare i banchi degli ebrei italiani. Con l’aiuto anche di Dani Nissim, che si muove nell’interpretazione di questo genere di scritti con la malizia di un furetto, abbiamo avuto un assaggio dell’ironico cinismo con cui pochissimi individui erano riusciti ad adattarsi ad una condizione di costrizione, volgendola a proprio vantaggio e traendone ingente profitto. Miscelando sapientemente l’osservanza religiosa con gli stratagemmi commerciali, come quello di darsi malato quando il cliente veniva a restituire il prestito l’ultimo giorno del mese, perché il giorno dopo scattasse l’interesse più alto del mese successivo. Fino al 40% su base annuale. Non esattamente il modo per suscitare empatia presso il grosso della popolazione, nell’Italia rinascimentale che invece, nelle sue elites più colte, si avvicinava agli ebrei con curiosità intellettuale.
Ci hanno detto che possiamo scendere dagli autobus, ed avviarci a piedi verso Yasuf, il villaggio palestinese di poco più grande di Kfar Tapuach, che però lo sovrasta dall’alto e ne ha requisito, fin dagli anni Settanta, parte dei terreni. Su quelli rimasti, gli ulivi vengono frequentemente divelti, o bruciati, dai coloni. Siamo venuti fin qui con i rabbini per partecipare alla loro ripiantagione, offrendo ai contadini di Yasuf la solidarietà di una parte, purtroppo minuscola, della popolazione ebraica israeliana. Con l’esercito, è una specie di giuoco dell’oca. Stiamo percorrendo i due chilometri che ci separano dal villaggio, quando veniamo sorpassati dagli autobus, vuoti, cui ora è stato consentito di passare. Buon segno! Il negoziato ha avuto successo. Cauta soddisfazione degli attivisti di Zazim e di Omdim BeIachad, che hanno co-organizzato gli autobus; anzi, delle attiviste, ché sono quasi tutte giovani donne. Ma quando arriviamo allo slargo di fronte al municipio in costruzione di Yasuf, costruzione che sembra essersi bloccata vent’anni fa, troviamo gli autobus fermi, e veniamo bloccati anche noi. Avi Dabush, che coordina i Rabbini per i Diritti Umani, spiega che ieri sera l’esercito ha chiesto di comunicare dove esattamente sarebbero stati ripiantati gli ulivi, e stamani precisamente quel fazzoletto di terra, a poche centinaia di metri da noi, è stato dichiarato zona militare chiusa. Non possiamo andare. Tornate un’altra volta, ci dice l’esercito, allargando metaforicamente le stesse braccia che allargava il prestatore, improvvisamente malato, al contadino che veniva a restituire il prestito e riprendere così il suo pegno, l’ultimo giorno del mese.
Rimaniamo un paio d’ore davanti al municipio mai finito. Forse la trattativa può riprendere. Forse, nonostante la luce della Samaria, siamo arrivati in anticipo, in realtà è ancora notte, e presto verrà il mattino... Capiamo che non sarà così quando compaiono alcuni palestinesi di Lohamim leShalom, l’associazione di ex-combattenti di entrambe le parti, oggi piantatori di speranze. Ulivi già ripiantati, ci dicono quasi scusandosi. Una rabbinessa dalla kippah colorata non si perde d’animo, e dopo una breve tefillah, vagamente ecumenica, intona un canto. Le ragazze di Zazim e di Omdim BeIachad, dall’aspetto invero piuttosto laico, la seguono più che altro muovendo le labbra. Prima di ripartire, riesco a comprare dell’olio d’oliva. Potrà servire ad accendere una chanukkià, se mai verrà riconsacrato il Tempio.
Alessandro Treves
Trieste e Tel Aviv
Hagar Shezaf, Israeli Army blocks 200 activists from planting trees with Palestinians in West Bank <https://tinyurl.com/s74ryzp>
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