Film

 

JoJo Rabbit

La satira edificante ai tempi del Giorno della Memoria
 

di David Calef

 

A fine gennaio, pochi giorni prima del Giorno della Memoria, ho visto JoJo Rabbit in un cinema di Roma. La sala era gremita di spettatori, quasi tutti giovani (30 anni al più, forse attratti dalla riduzione del biglietto).

Un mese e mezzo più tardi, il film - in versione originale - è in cartellone nello stesso cinema ed è ancora uno dei dieci film con i maggiori incassi nella capitale.

Secondo la cronaca del Messaggero, pubblicata in occasione della prima del film, il presidente della Fondazione Museo della Shoah ha tenuto a sottolineare “l’importante contributo offerto dal cinema in occasione di tematiche importanti come quella trattata dal movie, che è una commedia nera sul nazismo, anche in vista dell’imminente celebrazione del Giorno della Memoria”.

JoJo Rabbit racconta la storia di JoJo Betzler (Roman Griffin Davis) un ragazzino di dieci anni entusiasta sostenitore del Terzo Reich. JoJo vive con la madre Rosie (Scarlett Johansson) e ha un amico immaginario: Adolf Hitler, interpretato da Taika David Cohen Waititi, regista del film.

La prima mezz’ora scorre veloce e alcune scene fanno sorridere: ad esempio la corsa di JoJo - raggiante alla prospettiva di passare un fine settimana in un campo di addestramento della Hitler-Jugend - montata con le immagini di tedeschi con le mani destre alzate nel saluto nazista mentre i Beatles cantano I wanna hold your hand in tedesco. I nazisti sono per lo più buffe macchiette un po’ maldestre che lungi dall’ispirare avversione suscitano anche simpatia. Il capitano Klenzerdof, responsabile del campo (Sam Rockwell), mostrerà più in là le sue virtù da eroe. Da parte sua, JoJo non ha né il physique du rôle del giovane nazista né tantomeno l’indole. A dispetto della sua passione per il regime, JoJo è gentile, socievole ed è considerato un codardo dai suoi coetanei (di qui il soprannome “Rabbit” del titolo). Se il film avesse proseguito su questa falsariga di satira gentile e beneducata, non sarei tornato a casa scontento.

Ma a JoJo Rabbit non basta essere solo una commedia leggera. Ambisce ad essere una tragicommedia con un messaggio. Difatti, in breve arriva una svolta: JoJo scopre che la madre nasconde in casa Elsa (Thomasin McKenzie), un’adolescente ebrea, ex compagna di classe della sorella di JoJo che non c’è più. Elsa è carina, sveglia e non ha difficoltà a smontare l’iniziale ostilità di JoJo. Il quale, grazie ad Elsa, comprenderà ben presto che gli ebrei non sono i mostri che popolavano il suo immaginario di piccolo nazista. Il problema è che, con l’inizio della educazione del nostro imberbe razzista, il film acquisisce un intento edificante che diverte poco e non brilla troppo sul piano dell’educazione. A meno che abbiate meno di 14 anni e non sappiate nulla del nazismo. JoJo Rabbit gioca quindi su due registri: da una parte e per lo più, Waititi monta scene di satira spensierata e fin troppo garbata nei confronti dei nazisti, dall’altra ci fa partecipi della denazificazione di JoJo.

E in più aggiunge qualche intermezzo tragico. Per esempio, durante una passeggiata con la madre, JoJo scorge i corpi di oppositori del regime impiccati sulla pubblica via. Allora, il film inevitabilmente mette da parte l’aria scanzonata iniziale per assumere un contegno serio e, appunto, quasi tragico. Quasi, perché, nel giro di una manciata di secondi, si riprende con JoJo che continua il corteggiamento impossibile di Elsa, tutto come se nulla di orribile fosse accaduto. Non che non si possano mescolare registri diversi: il più bel film degli ultimi anni, Parasite, ci riesce benissimo. Ma in questo caso, la promiscuità di generi non funziona un granché. Dopo aver visto cadaveri di sconosciuti che penzolano dalla forca - e altri eventi ben più tragici sono in agguato - è difficile farsi coinvolgere dalle gag ai danni di ufficiali della Gestapo. Ma soprattutto, una volta lasciatosi alle spalle il tono umoristico della prima mezz’ora, JoJo Rabbit prova la carta della storia edificante che può essere riassunta nella memorabile tesi: la tolleranza vince sull’odio. In una fiaba una tesi siffatta ha forse ragione di esistere. Ma la storia, anche quella di oggi, anche in Italia, insegna che spesso l’odio non fatica a prendere il sopravvento sulla tolleranza.

La storia della cinematografia conosce film divertenti che scherniscono i nazisti: Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin (1940), Per Favore non toccate le Vecchiette di Mel Brooks (1968), e in tempi più recenti Train de Vie di Radu Mihăileanu (1998). Ma fare film che si prendono gioco della Germania nazista con intenti di commedia non è facile. La regola empirica sembra sia la seguente: più si ci si avvicina all’interno di un campo di sterminio più diventa difficile far sorridere. L’esempio più atroce a riguardo è senz’altro La vita è bella, che a dispetto dei suoi riconoscimenti (fra gli altri Gran Prix della Giuria a Cannes e Oscar nel 1998) è un film decisamente brutto e moralmente riprovevole.

JoJo Rabbit si tiene lontano dai lager ma smarrisce la sua vis comica non appena comincia a prendersi sul serio arrischiando scene farsesche accanto ad altre che dovrebbero essere strazianti e risultano solo incongrue. Fare film divertenti su eventi legati alla Shoah non è un atto di barbarie. Sorridere dei nazisti si può. Ma JoJo Rabbit ci lascia perplessi e scontenti quando mostra personaggi che muoiono senza rattristarci e si accomiata con JoJo ed Elsa che fanno le mossette al suono di Heroes di David Bowie. Altro che contributo al Giorno della Memoria.

Ma forse sbaglio. L’evidenza dei fatti dice che Waititi ha convinto moltissimi spettatori in tutto il mondo, compresa l’Italia, ed ha avuto riconoscimenti importanti: JoJo Rabbit, candidato a sei premi Oscar incluso quello per il miglior film, ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura non originale.

David Calef

 

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