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Israele e Vaticano
di Fiorella Fausone
Nato in Germania nel 1921, Ben Horin si trasferì in Israele nel 1944 dove lavorò, fino alla morte, presso il ministero degli Esteri. Il grande interesse per il lavoro svolto emerge da questo volume pubblicato postumo. Il periodo storico preso in esame va dal 1904 fino al 2005, anno in cui morì papa Wojtyla.
Sono due, come è facile immaginare, le entità che vengono a contatto, si incontrano, si scontrano, si ignorano: lo stato di Israele (o, meglio, fino al 1947, il costituendo Stato di Israele) e il Vaticano. Israele, stato nato per “dare una terra agli ebrei”, democratico e laico, non teocratico ma legato indissolubilmente alla storia e alla tradizione ebraica, e dall'altra il Vaticano, città-stato ed entità religiosa che esercita la propria influenza su un miliardo di fedeli sparsi nel mondo.
Per sommi capi si può evidenziare un primo periodo storico che va dalle proposte che Theodor Herzl avanzò al pontificato di Pio X (1903-1914) fino al 1958, anno della morte di Pio XII, in cui il Vaticano rifiutò categoricamente di accettare anche solo l'idea che uno stato ebraico fosse costituito. Mi sembra esaustivo del pensiero della segreteria di stato vaticana l'affermazione, pubblicata nel 1949 su “Civiltà Cattolica”, dove si legge che il sionismo non aveva smarrito la propria natura avversa al cristianesimo, pertanto si poteva ritenere confermata l'opposizione ferma alle teorie di Herzl. Il periodico tornò ad accusare ripetutamente il popolo ebraico di non essersi saputo elevare al riconoscimento del vero messia.
In alcuni casi, per sintetizzare, il comportamento del Vaticano fu di vera ostilità. Ad esempio nel 1949 il nuovo stato entrò nell'ONU, ma il Vaticano esercitò pesanti pressioni su molti paesi, in particolare quelli dell'America Latina, affinché votassero contro la candidatura israeliana.
Il secondo periodo preso in esame dal volume inizia con il 1965 quando papa Montini (Paolo VI) portò a termine l'enciclica “Nostra Aetate”, voluta dal predecessore papa Roncalli (Giovanni XXIII), nella quale venne disposta la cancellazione del concetto, predicato per quasi duemila anni, di giudei unici responsabili di deicidio.
Nel frattempo, nel 1964, lo stesso papa Montini era stato il primo pontefice a recarsi in Israele. Il pontefice si era premurato di precisare, ancora prima della partenza, che il suo viaggio avrebbe avuto un carattere eminentemente religioso e privo di ogni possibile implicazione politica. La visita durò un solo giorno e il papa, nei vari discorsi che tenne, non menzionò mai lo stato di Israele (che lo ospitava) e al suo ritorno a Roma indirizzò una lettera di ringraziamento al “presidente Shazar - Tel Aviv”.
Negli anni '70 con la violenza araba e la vicenda del prelato Capucci che contrabbandava armi a favore delle organizzazioni terroristiche palestinesi, le relazioni rimasero fredde e le posizioni lontane.
Con l'elezione di Carol Woityla - Papa Giovanni Paolo II, polacco vissuto lontano dalle gerarchie vaticane e cresciuto in un ambiente scolastico (negli anni della scuola elementare) fatto di ebrei e cattolici insieme con cui il giovane Carol aveva intrattenuto rapporti di amicizia, si poté immaginare un radicale miglioramento tra le due entità politico religiose.
Nel 1986 Giovanni Paolo II fu il primo papa a visitare la sinagoga centrale di Roma dove definì gli ebrei “i nostri fratelli maggiori”. Questa dichiarazione sembrava rappresentare una svolta nell'approccio teologico del cattolicesimo nei confronti dell'ebraismo; in realtà nella complessità delle affermazioni del papa risultò ancora evidente una sostanziale incertezza tra l'apertura e il conservatorismo dottrinale.
Soltanto nel 1993, dopo la fine della guerra fredda e gli accordi di Oslo di due anni dopo, venne stipulato l'Accordo fondamentale tra Santa Sede e Israele con il quale nacquero vere e proprie relazioni diplomatiche tra i due stati.
Il libro offre, in sintesi, una panoramica su molti aspetti del delicato problema di carattere sia politico sia diplomatico, ma evidenzia altresì la non volontà, da parte di entrambi i protagonisti, di far emergere ciò che di comune esiste tra le due religioni. La comune origine (che trova fonte nella Torah e nei suoi insegnamenti che vanno al di là dei tempi) non viene considerata come valore unificante atto a far superare interessi di potere e di supremazia, soprattutto da parte cattolica.
Mi sarei aspettata che i papi emergessero come figure alla ricerca di una pacificazione auspicabile tra le due religioni monoteiste, pacificazione indispensabile dopo duemila anni. Non mi pare, invece, che la mia aspettativa sia stata esaudita perché, anche se in maniera diversa (per i momenti storici diversi in cui i papi sono vissuti e per le caratteristiche personali degli stessi), ciascuno di loro ha mantenuto un atteggiamento di superiorità indotta dal ritenersi detentori dell'unica vera fede e dal potere che loro è derivato dall'avere molti milioni di fedeli. Insomma ogni papa ha vissuto guardando gli ebrei dall'alto in basso concedendo, o meglio, elargendo (con magnanimità) la propria attenzione in maniera sporadica, senza una profonda convinzione di voler abbattere i muri che si sono alzati negli ultimi duemila anni!
Fiorella Fausone
Nathan Ben Horin, Le relazioni tra Israele e Vaticano. 1904-2005. Questioni teologiche e politiche. 1904/2005, Panozzo editore, pp. 311, € 18
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