MARZO 2021 ANNO XLVI - 227 ADAR 5781
Prima pagina
Rimozione forzata
Anna Segre
A nessun mio compagno del liceo è mai venuto in mente di chiedermi dove fossero i miei genitori durante l’occupazione nazista e come avessero fatto a salvarsi. Ancora più paradossale, nessun compagno di liceo di mio padre gli ha mai chiesto dove si fosse nascosto o fosse fuggito meno di dieci anni prima. E non è solo la società italiana ad aver avuto difficoltà a misurarsi con la Shoah. Anche tra noi ebrei vigeva la stessa “congiura del silenzio” (come l’ha chiamata Lia Tagliacozzo nel suo libro La generazione del deserto, che è stato uno degli spunti di partenza di queste mie considerazioni): ho frequentato prima l’Hashomer Hatzair (movimento sionista-socialista) e poi la FGEI, Federazione Giovanile Ebraica d’Italia. Di Shoah si parlava abbastanza (soprattutto alla FGEI, che tra l’altro era stata la prima promotrice del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), ma non ricordo nemmeno una conversazione in cui ci sia capitato di raccontarci reciprocamente le avventure dei nostri genitori. È una prova di una nostra salutare e utile capacità di guardare avanti o è una gigantesca rimozione? Temo che sia più probabile la seconda opzione: in molte delle nostre famiglie la Shoah è ancora un tema troppo vicino e troppo doloroso.
Date queste premesse può sembrare paradossale dire, come si fa spesso, che di Shoah si parla troppo. Certo, ogni anno intorno al giorno della memoria siamo bombardati da film, spettacoli, conferenze, libri che escono apposta in quel periodo. Eppure resta sempre una sensazione di non detto abbastanza, di reticenze e silenzi imposti. Si ha sempre l’impressione che se ne parli nel modo sbagliato, e sembra che sia sempre necessario dover giustificare o comunque motivare il fatto stesso che se ne parli. Basti pensare alla frequenza con cui qualcuno il giorno della memoria si domanda perché non si parla di qualcos’altro, dai gulag ai palestinesi, dallo sterminio dei popoli americani nel XVI secolo al genocidio degli armeni (di cui effettivamente non si parla abbastanza, ma perché si dovrebbe farlo proprio il 27 gennaio?). È una cosa che capita, a pensarci bene, solo per quanto riguarda la Shoah: nessuno quando si parla dell’assassinio di Giulio Cesare si alza indignato a domandare perché non si parli altrettanto di quello di Cicerone. Può darsi che la frequenza con cui la giornata è contestata sia dovuta proprio alla sua maggiore visibilità. Non mi pare comunque necessario che per giustificare l’esistenza del giorno della memoria si sia costretti ad entrare nella complessità di un dibattito storico e filosofico sull’unicità della Shoah: se anche supponessimo per assurdo che nella storia si siano verificati altri crimini di eguale gravità e con le medesime caratteristiche, questo non basterebbe a dimostrare che non si possa dedicare una giornata specifica alla Shoah, così come si può dedicare una giornata alla lotta contro i cambiamenti climatici e un’altra alla lotta alle mafie senza che nessuno si metta a fare gare di gravità o pretenda che nel giorno dedicato a uno dei due temi si parli dell’altro. Altra cosa è non negare le somiglianze di singoli elementi dell’insieme pur nell’incomparabilità del contesto generale: giusto e doveroso, per esempio, parlare di immigrazione clandestina e respingimenti. Perché la storia ci deve servire da insegnamento e da monito, e anche perché nel rifiuto a priori di ogni comparazione si corre il rischio di dover scegliere cosa raccontare o meno circa la Shoah a seconda delle convenienze politiche del momento.
Se il dibattito su questo tema avesse un fondamento razionale, per spiegare la maggiore attenzione data alla Shoah rispetto ad altri genocidi della storia basterebbero il coinvolgimento dell’Italia e le responsabilità italiane. Infatti, a mio parere molto correttamente, negli ultimi anni si è cercato di focalizzare l’attenzione sulla storia locale, con i ragazzi che hanno svolto ricerche e attività sul destino degli studenti ebrei che avevano frequentato la loro stessa scuola, gli avvocati che hanno parlato degli avvocati, i magistrati dei magistrati, i docenti universitari dei docenti universitari, ecc. Ma tutto questo, a quanto pare, non è bastato. Abbiamo letto e sentito, in particolare l’anno scorso, di assessori che si sono opposti alle pietre d’inciampo o si sono rifiutati di finanziare i viaggi della memoria. Per capire quanto di patologico ci sia in queste negazioni basti pensare a che cosa viene effettivamente paragonato alla Shoah, dal lockdown all’obbligo delle mascherine e dei vaccini, che vengono disinvoltamente accostati ad Auschwitz. Una corsa alla banalizzazione che ha dell’incredibile per forza e pervasività, come se il pensiero della Shoah dovesse essere continuamente esorcizzato tramite la riduzione alla quotidianità e il confronto con situazioni ed eventi alla nostra portata. Fenomeni che secondo me nascono essenzialmente dal rifiuto di fare i conti con le responsabilità italiane. E di questa società italiana incapace di fare i conti con il proprio passato noi ebrei italiani facciamo parte a pieno titolo e spesso ne condividiamo i vuoti di memoria, soprattutto se questi ci sono utili per mantenere buoni rapporti con forze politiche che sono percepite come amiche di Israele.
Come dicevo all’inizio, una certa reticenza a parlare di Shoah non manca neppure all’interno del mondo ebraico. Innanzi tutto c'è la tendenza a negare l'unicità della Shoah perché la storia ebraica non sarebbe altro che una continua storia di persecuzioni subite ininterrottamente dagli ebrei da parte di tutti gli altri popoli, di cui la Shoah sarebbe solo uno dei tanti episodi. Questa visione è presente da decenni nel mondo religioso: quanti tra i giovani charedim di oggi sanno cosa è stata la Shoah? Quanti lo sapranno tra dieci, venti o trent'anni quando non ci saranno più testimoni viventi e neppure persone che hanno parlato da adulte con i testimoni? Quanto sarà facile in ambienti in cui non si studia la storia diffondere teorie "negazioniste" - che a quanto pare già circolano - secondo cui i sei milioni di vittime della Shoah erano solo ebrei non osservanti, o addirittura persone che non erano halakhicamente ebree, mentre i "veri" ebrei non sono stati toccati? A volte si tende a minimizzare il peso della Shoah rispetto ad altre persecuzioni subite dagli ebrei per alimentare l’idea che gli ebrei siano eternamente in pericolo e non possano contare mai su altro che sulle proprie capacità di autodifesa; è un’idea che ostacola i tentativi di pace con il palestinesi e al contempo è funzionale a favorire i buoni rapporti della destra israeliana con personaggi estremamente inquietanti della destra europea (dall’Ungheria alla Polonia senza dimenticare casa nostra) e non solo: c’è voluto l’assalto al Campidoglio di persone con magliette antisemite e negazioniste per far capire a molti ebrei che forse Trump e i suoi seguaci non erano esattamente i grandi amici degli ebrei di cui si favoleggiava. L'uscita di Netanyahu di qualche tempo fa secondo cui Hitler non avrebbe avuto l'idea di sterminare gli ebrei finché il Gran Muftì di Gerusalemme non glielo aveva suggerito mi pare un ottimo esempio dei pericoli che si corrono con questa sottovalutazione esasperata della Shoah per fini politici immediati.
In questo contesto - oscillante tra la rimozione di qualcosa che per noi è ancora troppo doloroso e le convenienze politiche del momento che a volte fanno passare in secondo piano la storia di ottant’anni fa – si colloca un tema che può apparire secondario ma che secondo me è rilevante perché tocca gli aspetti più profondi e carichi di valenze simboliche della cultura ebraica: la ritualità. Rispetto alla rapidità con cui la festa di Yom Ha-Atzmaut, che celebra la nascita dello Stato di Israele, ha già trovato una sua liturgia, con letture ben precise di salmi e passi biblici, la reticenza dell’ebraismo religioso (e non solo quello ortodosso) a dedicare momenti rituali alla peggiore catastrofe che abbia mai colpito il nostro popolo in tutta la storia è davvero sconcertante. Che io sappia esiste un solo testo, El maalè rachamim, che in alcuni casi è dedicato agli ebrei uccisi nella Shoah (ma può essere usato anche per i soldati caduti per lo Stato di Israele o per le vittime del terrorismo). Personalmente trovo ancora più sconcertante che i pochi - pochissimi! - momenti di ricordo della Shoah vengano messi in discussione, e, anzi, sostanzialmente accantonati. Non so se sia solo la Comunità Ebraica di Torino a leggere il 10 di Tevet i nomi di tutti i deportati. Certo, lo scorso 10 di Tevet ho constatato con un certo stupore di essere stata l’unica a parlarne sui media dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, e lo stesso è accaduto in un gruppo whatsapp di donne ebree torinesi che commentano la Torah. Onestamente, considerato che lo stato di Israele e lo stesso sionismo (osteggiato da molti charedim [ultraortodossi]) sono temi divisivi per il mondo ebraico mentre il ricordo della Shoah a rigor di logica non dovrebbe esserlo, sarebbe stato naturale attendersi il contrario, cioè che fosse la memoria della Shoah molto più che la nascita dello Stato di Israele ad avere per prima i suoi rituali specifici, considerando anche che si tratta di una fatto storico concluso, mentre Israele è ancora in cerca della pace con i suoi vicini, e che è anche leggermente precedente. Personalmente non intendo contestare la festa di Yom Ha-Atzmaut, ma certo la ritengo la più evidente dimostrazione di quanto l’atteggiamento dell’ebraismo di fronte al ricordo della Shoah sia gravemente anomalo.
Ma quello che mi sconcerta più che mai è che dall’Haggadah di Pesach nelle edizioni più recenti sia stato quasi sempre espulso il Rituale della Rimembranza in ricordo dei sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah e della rivolta del ghetto di Varsavia. Non lo include neppure l’Haggadah Etz Haim a cura di Rav Cipriani, di cui si parla in altre parti di questo giornale, che pure non disdegna la stretta attualità per quanto riguarda la pandemia, inserendo le mascherine addirittura nelle immagini. Altre Haggadot hanno espunto il Rituale per una scelta voluta di collocare il rito al di fuori di ogni contingenza storica. Il che potrebbe avere senso, se non fosse che le medesime persone che si scandalizzano che si dedichi alla Shoah una pagina su cinquanta o sessanta, cinque minuti su tre ore di seder, non trovano nulla da ridire di fronte a una festa nata dal nulla (contro la tradizione ebraica di “accorpare” i momenti festivi e luttuosi nel corso del’anno, aggregando gli eventi nuovi a ricorrenze preesistenti) figlia di un evento storico generato da una risoluzione dell’Onu, né di fronte al fatto che allo Stato di Israele, laico e ben inserito nella storia, si dedichi addirittura una frase aggiuntiva nella Birkat Ha-Mazon, la benedizione dopo il pasto. Se nella cultura ebraica si scontrano due concezioni, una che percepisce il divenire, il mutamento, l’evoluzione, l’adattamento dell’halakhah alle circostanze reali, e l’altra astorica e atemporale (che forse si potrebbero accostare a quelle che Michael Walzer in Esodo e rivoluzione chiama la visione dell’Esodo e quella del Messia), io credo che nel mondo ebraico di oggi (e forse per tutta la storia ebraica) sia la prima delle due a prevalere. Con la vistosa eccezione della Shoah.
Il problema, a mio parere, è che questa rimozione non può funzionare. Troppo grave e recente la ferita (l’uccisione in pochi anni di un terzo circa del popolo ebraico, la scomparsa dei principali centri culturali, e anche degli stessi Maestri), troppo vicina a noi, e troppo gravi i suoi effetti di cui ancora soffriamo anche quando non vogliamo rendercene conto. Ogni leader, ogni rabbino, ogni organizzazione sente nel suo inconscio di essere qui al posto di qualcuno che non c’è più, al posto di qualcosa che avrebbe potuto e dovuto essere e non è stato. E, come in tutte le rimozioni, ciò che è rimosso diventa ancora più devastante e pervasivo. La Shoah non trova posto nel nostro rituale perché pervade tutta la nostra cultura, è un’ombra che non percepiamo perché le nostre generazioni non hanno mai visto la luce - un mondo in cui non si sia costretti a pensare in ogni secondo che la Shoah è potuta avvenire - e se ne è perduto persino il ricordo. Nel nostro immaginario il Faraone, Nabucodonosor e Hamman hanno il volto di Hitler, i sorveglianti ebrei costretti a far lavorare altri ebrei di cui si parla all’inizio dell’Esodo hanno le sembianze degli Judenrat, quando leggiamo di bambini ebrei che devono essere gettati nel Nilo e di donne giuste (le levatrici, la figlia del faraone) che li salvano ci commuoviamo pensando alle nostre vicende famigliari.
Ho iniziato ricordando la FGEI. È vero che anche in quel contesto abbiamo taciuto cose che forse sarebbe stato logico e salutare non tacere, ma almeno lì il problema è stato percepito, si è avuto il coraggio di dare un volto esplicito ai nostri incubi. L’Haggadah di Pesach della FGEI, edita per la prima volta nel 1974, per me è sempre stata l’unica possibile. A pag.29 dell’edizione che ho sottomano la frase “e ci tormentarono” è illustrata con un disegno di Franco Lattes di ebrei portati via da soldati nazisti dietro a cui giganteggia una copertina del giornale antisemita Der Stürmer. “L’accostamento per noi era ovvio” mi ha raccontato David Terracini, ideatore di quel collage. Era ovvio per i ragazzi della Fgei degli anni ’70 come lo è oggi per noi e per i ragazzi ebrei di oggi. Ma negli anni successivi è mancato il coraggio di esplicitarlo, e non credo che sia stato un bene.
Forse quando smetteremo di dire che si parla troppo di Shoah, in particolare nelle occasioni in cui se ne parla molto meno di quanto sarebbe giusto e logico parlarne, quando riusciremo a darle una forma, un’immagine in un’Haggadah, una formula, un rito specifico, allora sarà la fine della rimozione (forzata e dolorosa, come tutte le rimozioni) e sarà l’inizio della guarigione.
Haggadah FGEI 1974,
illustrazione di Franco Lattes e David Terracini
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