MARZO 2021 ANNO XLVI - 227 ADAR 5781
Israele
Partito arabo-ebraico? Non ancora
Giorgio Gomel
Diversi osservatori, che registrano con sconcerto e amarezza la debolezza del centro-sinistra in Israele, ritengono che l’unico modo per una riscossa di tale schieramento sia un’intesa con la minoranza araba nel paese: un’alleanza anche politica per costruire una società fondata su principi di eguaglianza e democrazia, in base alla quale da un lato i partiti ebraici si battano per modificare la legge dello “Stato-nazione ebraico”, che, approvata nel 2018, codifica una condizione di disuguaglianza fra cittadini ebrei ed arabi di Israele, e per includere gli arabi nel body politico del paese alla pari e dall’altro gli arabi israeliani accettino che il loro paese sia uno stato democratico a maggioranza ebraica.
La Lista araba unita - partito che ha federato quattro diverse formazioni politiche – ha ottenuto un corposo successo nelle elezioni del settembre scorso giungendo a 15 seggi: vi hanno influito la crescente partecipazione al voto dei cittadini arabi; la loro volontà di incidere in misura maggiore sul corso politico del paese in parallelo al processo di integrazione economica e civile nella società israeliana; la priorità assegnata alla riduzione delle diseguaglianze che ancora gravano sulla minoranza araba nel sistema di istruzione, nel mercato del lavoro, nel possesso di terreni a fini abitativi e nelle infrastrutture.
La novità dirimente post-elezioni sarebbe stata un appoggio esterno in Parlamento da parte della Lista araba ad un governo guidato da Benny Gantz, il leader del partito centrista. Uno sviluppo siffatto avrebbe rappresentato la rimozione di un tabù paralizzante per il sistema politico del Paese sin dalle origini: soltanto il governo guidato da Yitzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 si era avvalso infatti del sostegno dei partiti arabi, che fu rilevante nelle trattative che condussero agli accordi di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi. Ciò non è avvenuto. In un parlamento di 120 membri, di fatto 15 di essi sono irrilevanti, privati di potere determinante nell’attività legislativa e di indirizzo politico del paese.
Nelle prossime elezioni, come ormai dal 2019, il Primo ministro uscente ha imposto - e i suoi antagonisti hanno di fatto accettato - quasi un plebiscito sul suo conto, con l’intento di evitare il processo che dovrebbe affrontare in base alle incriminazioni in atto per tre casi di corruzione, frode ed abuso di fiducia, o almeno di restare in carica nonostante le imputazioni; secondo la legge lo può fare sino al verdetto finale. Elezioni distorte, quindi, nella loro natura in quanto l’oggetto del contendere è in misura predominante il futuro di Netanyahu, quando in una democrazia normale se si è colpiti da un’imputazione si è soggetti a un processo, non ad un’elezione. I temi dirimenti per il paese - un accordo di pace con i palestinesi, il rispetto dello stato di diritto e delle prassi democratiche, il legame controverso fra religione e politica e il monopolio del rabbinato ortodosso in materie anche civili, l’acuirsi delle diseguaglianze socio-economiche - sono largamente elusi. Solo la sinistra ha sollevato con forza il dilemma drammatico che incombe sul futuro di Israele. Una democrazia limitata a causa: a) della legge sullo “stato-nazione ebraico” che codifica uno stato di non eguaglianza tra ebrei e arabi cittadini di Israele; i secondi godono infatti di pari diritti individuali, ma non dei diritti collettivi propri di una minoranza nazionale; b) del clima ossessivo volto a delegittimare e colpire istituzioni e corpi indipendenti – il potere giudiziario, soprattutto la Corte suprema, l’accademia, il mondo della cultura, la stampa, le ONG attive nella difesa dei diritti umani.
Nel contesto attuale, con una sinistra vieppiù debole, un centro frammentato in più partiti, ed una destra che resta egemone, ancorché divisa fra Netanyahu e i suoi antagonisti, si è affermato uno sviluppo nuovo, ancorché ancora limitato nei suoi effetti: la formazione di un partito arabo-ebraico su base paritaria, come elemento essenziale per il futuro democratico del paese.
Un recente seminario promosso da J-Link, la rete progressista ebraica internazionale formatasi un anno fa e composta di organizzazioni ebraiche in Europa, Stati Uniti, Canada, Sud Africa, America del sud e Israele (www.jlinknetwork.org) ha voluto affrontare questo tema (il seminario è fruibile su https://youtu.be/gZsgq8xCRmA).
I relatori, diversi per formazione politica, età, comunità di riferimento erano: Rula Daud, codirettrice di Standing Together (Omdim be’yachad) – un movimento di base di giovani arabi ed ebrei impegnati in difesa dei diritti umani, della pace, dell’eguaglianza; Avraham Burg – fra i fondatori di Pace adesso, ex Presidente della Knesset e dell’agenzia ebraica; Yona Yahav – ex parlamentare laburista, per lunghi anni sindaco di Haifa; David Enoch – filosofo, promotore del movimento Joint democratic initiative.
Vi è peraltro una divisione, una diversità di orientamento, fra i movimenti che sostengono un futuro che si connoti per una partnership arabo-ebraica su base egualitaria.
Nell’imminenza delle elezioni di marzo solo Yahav e il suo partito Or Hashachar sembravano convinti di partecipare appieno con proprie candidature, ritenendo che la società araba dia preminenza a temi quali l’istruzione, la forte disoccupazione soprattutto fra i giovani e le donne, il contrasto al crimine acuitosi gravemente negli ultimi anni a causa di violenze fra clan e famiglie nonché nelle forme di gangsterismo organizzato; molto meno alla soluzione del conflitto con i palestinesi. Ma nel rincorrersi dei sondaggi e della composizione complicata di alleanze elettorali fra i partiti che concorrono alle elezioni hanno purtroppo desistito, ritenendo di non poter superare la soglia minima del 3,25% richiesta perché un partito sia rappresentato in Parlamento.
Gli altri movimenti prefigurano comunque un’azione di più lunga gittata. Sono convinti anch’essi che l’unica chance di una rinascita della sinistra in Israele, basata su ideali di uguaglianza, giustizia sociale e risoluzione del conflitto con i palestinesi, risieda nella cooperazione fra arabi ed ebrei e che non sia sufficiente includere nei partiti classici della sinistra sionista candidati arabi per giungere a tale risultato (il Meretz ha inserito due arabi tra i primi cinque nella sua lista elettorale; il partito laburista risorto da una crisi lunga ed acuta ha anch’esso incluso candidati arabi in posizioni importanti). Ritengono inoltre che per la comunità arabo-israeliana siano dirimenti, al di là delle questioni socio-economiche, temi quali la difesa dei diritti dei palestinesi e la fine dell’occupazione. L’esigenza, secondo costoro, è di un’azione politico-culturale di lungo termine che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “stato degli ebrei” ad un’identità civile ed egualitaria dello “stato degli israeliani”. Avraham Burg, in particolare, ha assunto da tempo una posizione più radicale, enunciata anche in un’intervista rilasciata a Haaretz lo scorso gennaio, abbracciando l’idea che Israele diventi uno stato binazionale, egualitario e pienamente democratico.
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