MARZO 2021 ANNO XLVI - 227 ADAR 5781

 

 

USA

 

 

 

Tragedia o teatro dell'assurdo?
Donald Trump tra Lear e Ubu, ovvero il carisma della volgarità


Giorgio Berruto

 

 

 

È certo che le immagini dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso saranno sulle pagine dei libri di storia di domani. Come verranno rubricate, invece, lo scopriremo nei prossimi anni: punto più basso di una parabola, che coincide con l’inizio della risalita, oppure simbolo di un modo politico che è già irrevocabilmente altro rispetto a quello del passato, e che forse solo per conservatorismo linguistico possiamo ostinarci a definire ancora “politico”? Una parentesi nella tradizione democratica statunitense, come opinerebbe Croce, oppure la rivelazione di problemi mai risolti, perché mai neppure affrontati, del vivere insieme, come potrebbe dire Gobetti? Sembra chiaro che Trump e il trumpismo non verranno archiviati dal sabba del Campidoglio, anche nel caso in cui il partito repubblicano trovasse finalmente la forza per sganciarsi dall’ex presidente in nome della propria stessa tradizione di Grand Old Party: tradizione discutibile in molti punti, e tuttavia tradizione di un partito politico degno di questo nome, con cui la tragica carnevalata aizzata da Trump in persona il 6 gennaio ha poco da spartire. Non inganni il silenzio irreale durante le prime settimane dopo il 20 gennaio, giorno dell’instaurazione del successore, perché negli Stati Uniti nessuno crede a un vero disarmo. Trump non scruta con nostalgia l’orizzonte sereno di Palm Beach, al contrario prepara la guerriglia giudiziaria dalla reggia di Mar-a-lago, Florida, una Xanadu senza grandezza ma molto kitsch.

L’assalto alla democrazia guidato da quello che era allora ancora il presidente degli Stati Uniti non nasce peraltro con la netta sconfitta elettorale dell’autunno scorso, quando lo sfidante Joe Biden ha raccolto oltre sette milioni di voti in più. I neovichinghi in Campidoglio sono segno di un’escalation, non di un salto di qualità perché il modo politico eversivo di Donald Trump era evidente a partire dalla campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca nel 2016, e ha continuato a essere chiarissimo nei quattro anni della sua presidenza. Per questo non è forse inutile provare a tracciare un ritratto di The Donald sulla scorta di due opere teatrali che non potrebbero essere più diverse anche se entrambe descrivono la vicenda di un tiranno, Re Lear di William Shakespeare e Ubu re di Alfred Jarry.

 

Re Lear Dopo l’assalto al Campidoglio alcune testate americane hanno avvicinato Trump a Lear per il vittimismo manifesto che ha portato a non accettare l’esito delle elezioni, la presunzione, l’arroganza e la violenza verbale con cui ha sobillato i suoi sodali contro le istituzioni della democrazia, una comunicazione infantile che utilizza sistematicamente lo strumento dell’attacco personale, la semplificazione macchiettistica, la messa in ridicolo dell’avversario. Come re Lear all’inizio dell’opera di Shakespeare, Trump non accetta contraddittorio e impone la legge del più forte; chi non è d’accordo è un loser, un perdente, uno sfigato. Nella figura di Lear inoltre l’esibita virilità si rivela per quello che è, cioè machismo, con i suoi inevitabili corollari di odio e disprezzo nei confronti delle donne. Dopo aver abdicato e diviso il regno tra le due figlie Gonerill e Regan, Lear urla alla prima che si rifiuta di prendere ordini: “Mi vergogno che tu abbia il potere di scuotere così la mia virilità”. Maledicendo Gonerill, che gli ha mentito al momento della divisione del regno assecondando la sua vanità senile ma dice ora la verità, le attribuisce una “faccia da lupa”, disumanizzandola e umiliandola. Più avanti descrive le donne come creature mostruose: “Dalla vita in giù sono tutte centaure benché sopra siano donne”. La misoginia, nella scena iniziale della divisione del regno tra le figlie, si salda con il desiderio di adulazione, che assume un volto crudele quando non corrisposto. Così la terza figlia Cordelia, che diversamente dalle sorelle rifiuta di stare al gioco del padre quantificando il proprio amore per lui, viene esclusa dall’eredità. Inutile qui ricordare le numerose esternazioni misogine di Trump, che includono donne paragonate a cagne e maiali e l’affermazione che le gravidanze siano un problema per i datori di lavoro.

Più in generale, quello che avvicina maggiormente Trump a Lear è una comunicazione che rifiuta il dialogo autentico a tutto vantaggio di urla e insulti. Trump, come Lear, si esprime con uno strepito ininterrotto, un rumore riassunto perfettamente nella forma superconcentrata e inappellabile del tweet, equivalente trumpiano di quello che per i Monty Python è una marca di carne in scatola (Spam). Come la tragedia di Shakespeare è riempita dalle urla del protagonista tiranno prima e folle poi, la comunicazione dell’ex presidente è una cascata di affermazioni urlate spesso false e sempre approssimative, un flusso di rumore continuo. Nei domini di Lear e Trump non c’è spazio per il silenzio. Quando Lear domanda a Cordelia “cosa puoi dire per assicurarti un terzo del regno più opulento che non le tue sorelle?”, lei risponde: “Nulla, mio signore”. Il suo silenzio rivela il gioco del padre che vuole ingannare gli altri ma inganna in fondo se stesso, ne affronta la pochezza con un’alternativa radicale alle tante parole di menzogna ascoltate. In esso, compendiato dalla lancinante battuta “Love, and be silent” (“Ama e taci”), risiede la sfida più implacabile al potere dispotico e maschile, che a propria volta per bocca del padre padrone si vendica contro Cordelia con il ripudio. Le maledizioni si avverano nel finale, quando Lear entra in scena con il corpo della figlia morta, silenziosa per sempre.

Tuttavia le analogie tra Lear e Trump non devono farci dimenticare le differenze. Trump è rimasto sempre uguale a se stesso prima durante e dopo il quadriennio da presidente, non ha vissuto una caduta perché non c’è mai stata ascesa. Lear è un personaggio tragico che sperimenta la contraddizione e il contrappasso, il delitto e il castigo, Trump invece no. Questi non è l’Ulisse dantesco, eroe che varca le colonne d’Ercole, sfida i limiti e precipita nel vortice dell’oceano, ma il goloso Ciacco, grottesco e orizzontale, che immerso nella melma digrigna i denti. Quando al tiranno Lear cede la terra sotto i piedi, si spalancano gli abissi della follia; per questo ispira repulsione ma anche fascino e infine pietà quando dice a Cordelia “sono un vecchio molto pazzo e sciocco […] temo di non avere più il cervello a posto”. Lear è dispotico e umile, coraggioso e spaventato, violento e affranto. In una parola, è umano. Trump invece non ha nulla di tragico, non ha forse neppure un’identità, idee o principi ma solo un modo di fare volgare e grossolano che riempie tutto lo spazio pubblico. Lear è tridimensionale, complesso, vivo; Trump piatto, senza alcuna competenza o qualità. Nemesi paradossale della letteratura sulla storia.

 

Ubu re Quando Ubu re fu rappresentata la prima volta a Parigi, il 10 dicembre 1896, scatenò il pandemonio, al punto da permettere solo due anni più tardi al suo autore Alfred Jarry di riportarla in scena, peraltro in un teatro di marionette. Perché questo rifiuto apparentemente unanime di pubblico e critica? Perché, soprattutto, il personaggio di Ubu può dirci qualcosa su Trump? L’opera di Jarry, considerata precorritrice del teatro surrealista e dell’assurdo, mescola provocazione, volgarità e umorismo grossolano, riferimenti al sesso tra Ubu e la moglie “eccezionalmente brutta” e violenza insensata. L’intreccio è inestricabile, con la scena che si sposta continuamente tra diciannove location diverse e una sequenza di assassini, sangue e fantasmi che è anche una parodia di Macbeth. Protagonista è Padre Ubu, tanto violento quanto stupido e codardo, che diventato re di Polonia si arricchisce sterminando chi lo circonda, vince casualmente la guerra scatenata contro la Russia, viene quasi sbranato da un orso e infine scappa a Parigi dopo essere stato deposto. Come Trump, Ubu si esprime in modo contraddittorio combinando violenza e codardia, pigrizia e ignoranza, tirannia nei confronti dei subalterni e oscenità verso le donne. Si esprime urlando volgarità (onnipresente il neologismo merdre, “merdra”), è implacabile nei confronti degli altri e indulgente nei propri. Nello stesso tempo Ubu - il cui nome stesso non è altro che un balbettio - affascina per l’appartenenza a un mondo prerazionale, o forse compiutamente irrazionale. Come un bambino, simbolo dell’innocenza che precede la civiltà, se vuole qualcosa semplicemente la prende seguendo l’impulso, costi quel che costi. Non esistono “altri” nel suo mondo segnato da completa autoreferenzialità. Il contrasto tra innocenza bambinesca e violenza sfrenata, da cui nasce il comico, permette di capire le reazioni scomposte dopo la prima dell’opera ma anche la sua forza di attrazione.

La buffoneria e la comica volgarità di Ubu e di Trump sono cifre che accomunano anche altri personaggi pubblici - basti pensare a Beppe Grillo prima della recente parziale “svolta istituzionale” - con la differenza che questi non hanno guidato gli Stati Uniti per un lunghissimo quadriennio. Chi invita a lasciare correre sugli atteggiamenti poco consoni di Trump ricorda in modo impressionante coloro che meno di un secolo fa, in Italia e in Germania, invitavano a non prendere troppo sul serio Mussolini o Hitler. Inoltre e soprattutto, della “politica” di Donald Trump non rimane nulla se si provano a sottrarre i modi anticipati nell’opera di Jarry: sono questi a esaurire quella, risucchiandola come in un buco nero. Non c’è una forma separabile da un contenuto perché non c’è alcun contenuto, alcuna idea, alcuna politica. Il messaggio, in Ubu e in Trump, è perfettamente ridotto al medium.

Ubu re è anche una satira antiborghese, per esempio con i continui riferimenti all’attaccamento al denaro da parte del protagonista, ma soprattutto è una rappresentazione del fascino carismatico della volgarità. Il rapporto tra Ubu e il popolo è esemplare: il primo è l’uomo comune divenuto tiranno, il secondo massa che desidera essere ingannata e adorare un atomo di sé che ce l’ha fatta. Il raffronto con Trump riesce a Ubu dove quello con re Lear fallisce perché Ubu e il suo popolo non hanno nulla di tragico. Ubu non è il Kurtz di Apocalypse Now e il popolo che osanna il primo non è quello che adora il secondo. La vicenda rappresentata da Jarry è quella di un uomo comune riverito da uomini comuni. Nessuna profondità, nessuna contraddizione. Nulla.

A Trump vanno riconosciute pesanti responsabilità nella trasformazione del concetto stesso di popolo. L’attrazione da parte di decine di milioni di statunitensi verso questo nuovo Ubu inadeguato e volgare non è un fenomeno passeggero e neanche esclusivamente americano, sebbene proprio nella più grande democrazia del mondo abbia toccato l’apice. Quello che è più sconfortante, e più vero, è che smascherare i modi del potere di Trump non serve a ridurre i suoi seguaci. Le obiezioni, come sulla scena globale di un gigantesco teatro dell’assurdo, diventano parte della performance.

 

 

 

A sinistra: Re Ubu in una serigrafia di Lele Luzzati,
a destra: Re Lear in una stampa del '700

 

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