OTTOBRE 2021 ANNO XLVI-230 CHESHVAN 5782

 

 

Dialoghi

 

 

 

Si può uscire dalla torre d’avorio delle nostre comunità?
Una possibile via di rinnovamento

Sandro Ventura

 

 

L’avvincente articolo di Anna Segre, pubblicato sul numero di luglio di Ha Keillah, sull’attuale stato critico delle nostre comunità, crisi soprattutto culturale che porta queste istituzioni a chiudersi appunto in una torre d’avorio e all’affermarsi, al loro interno, di un pericoloso pensiero unico ed elitario, ha però il difetto di una grave rimozione: quella relativa alla nascita ed alla diffusione dell’ebraismo progressivo (o liberale o riformato) in Italia, che ha portato alla formazione di alcune nuove comunità ebraiche negli ultimi venti anni. La prima, e la più grande, che ha costituito per tutte le altre un importante polo di riferimento, è stata Lev Chadash a Milano, da cui si è poi staccata Beth Shalom, sempre a Milano. Successivamente sono nate Shir Hadash a Firenze, Beth Hillel a Roma e Or Ammim a Bologna. Queste nuove comunità, che hanno un forte collegamento con l’European Union for Progressive Judaism e con la World Union for Progressive Judaism, si sono poi organizzate per dare vita nel 2017 alla Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo (FIEP). Vi sono inoltre due altre comunità che fanno riferimento ad un ebraismo moderno, promosse dalla Rabbina Barbara Aiello (Ner Tamid Del Sud, in Calabria) e da Rav Haim Fabrizio Cipriani (Etz Haim a Genova), autonome rispetto alla FIEP, seppure con importanti collegamenti internazionali.

In una realtà ebraica piccola come quella italiana, non è un fenomeno da poco, ed è comunque il segno di una forte e profonda necessità di rinnovamento di tanti ebrei che vivono in Italia, oltre che di una forte e non casuale motivazione. Viene da chiedersi perché Anna Segre nel suo articolo, in gran parte condivisibile, non abbia fatto alcun riferimento alla nascita di queste nuove realtà comunitarie che stanno crescendo sia sul piano associativo sia su quello demografico. Viene anche da chiedersi perché nulla di simile abbia coinvolto gli ebrei torinesi. Forse per la loro radicale e scettica laicità, che li porta generalmente a rifiutare o accantonare la dimensione religiosa dell’ebraismo (penso anche a persone come Primo Levi o Giuseppe Levi o Carlo Levi, per citare solo i più grandi), e quindi a delegarla totalmente ai rabbini e a quegli ebrei che si raccolgono intorno alla sinagoga di via San Pio V, di cui però molti torinesi sono piuttosto scontenti. Personalmente credo che la componente religiosa non sia marginale nella nostra appartenenza ebraica e credo anche che sia una cosa troppo importante per delegarla totalmente a rabbini ortodossi ed a fedeli delle sinagoghe, per quanto certamente il nostro ebraismo si esprima anche in tanti altri modi. Sono inoltre convinto che pure i riti e le tradizioni di cui siamo eredi vadano rinnovati ed integrati con le nostre esigenze attuali.

 Il movimento progressivo si propone di mettere al centro la libera scelta di ogni singolo ebreo, che può aderire o meno alla tradizione, in seno alla quale potrà trovare quella collocazione che gli sia più congeniale. È quindi radicalmente portatore di una visione pluralista ed antidogmatica dell’ebraismo, con particolare attenzione ai problemi che la modernità ci pone davanti. Primo fra tutti, il ruolo delle donne, che nelle sinagoghe tradizionali devono tacere e sono, in quanto donne, automaticamente escluse dal cantare i nostri bei canti tradizionali, dal sedere accanto ai loro affetti e dal prendere parte attiva ai servizi religiosi. Nelle comunità progressive l’uguaglianza fra uomini e donne è data per scontata: le famiglie possono pregare riunite, le tefillot possono essere condivise fra uomini e donne, e non mancano le donne rabbino: a Lev Chadash, Milano, i culti sono presieduti dalla rabbina Sylvia Rothshild, affiancata dalla studentessa Martina Loreggian, a Or Ammin, Bologna, dalla rabbina Ariel Friedlander. La Rabbina Barbara Aiello ha fondato Ner Tamid del Sud in Calabria. Con Beth Hillel di Roma spesso collabora la Hazanit Louise Treitman, che ha anche collaborato con Shir Hadash a Firenze. L’uso dell’ebraico nelle tefillot non è esclusivo, in quanto tutti i partecipanti alla celebrazione hanno il diritto di comprendere il significato delle parole che vengono cantate o pronunciate. C’è inoltre una particolare attenzione ai giovani ed alle minoranze escluse (penso al mondo LGBT). La libera scelta personale di ognuno di noi è molto più importante dell’imposizione di norme obsolete ed escludenti.

Anche rispetto ai rapporti con Israele, si cerca di evitare posizioni politiche comunitarie, ed ogni persona decide liberamente quale posizione assumere. Ad esempio, a Shir Hadash a Firenze, abbiamo iscritti aspramente critici nei confronti delle politiche israeliane, ed iscritti fautori di un sostegno incondizionato alla destra di Netanyahu (e di Trump). Queste opposte posizioni possono convivere solo separando drasticamente la sfera politica da quella religiosa, evitando di affrontare collettivamente questi temi divisivi, che vengono affidati alle coscienze personali, e possono trovare spazio solo in contesti esterni alla comunità.

Altra questione centrale per gli ebrei progressivi è quella del Tikkun ‘Olam, del miglioramento del mondo, per cui una parte del bilancio di ogni comunità è destinato a enti impegnati in opere benefiche o a persone che hanno bisogno di aiuti economici. Non mancano le discussioni sulla scelta dei soggetti da sostenere.

La FIEP è co-presieduta da Franca Eckert Coen di Roma e da Joyce Bigio di Milano, ed è gestita da un consiglio direttivo costituito da rappresentanti delle varie comunità. Essa ha dovuto e deve affrontare la questione dei rapporti con lo Stato e con l’UCEI, che è l’organizzazione ebraica che l’Italia riconosce come legittimo rappresentante degli interessi ebraici. Come afferma la legge sull’Intesa fra Stato e UCEI (8 marzo 1989 n° 101), art. 19, “l’UCEI è l’ente rappresentativo della confessione ebraica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell’ebraismo”. In forza di questo articolo, di fronte allo Stato, l’UCEI dovrebbe assumersi la responsabilità anche delle istituzioni che si ispirano all’ebraismo progressivo. A questo punto, emerge una contraddizione con lo Statuto dell’UCEI, che fa riferimento alla halakhà tradizionale, senza tenere conto del fatto che esiste da oltre un secolo una halakhà progressiva, che è normativa per i rabbini facenti parte della World Union for Progressive Judaism, la più grande organizzazione ebraica al mondo, che rappresenta svariate migliaia di comunità e svariati milioni di ebrei.

Dal gennaio 2020 è stato promosso un tavolo di consultazione tra UCEI e FIEP, allo scopo di discutere gli argomenti di comune interesse sui quali poter collaborare, ed anche per conoscersi meglio. Il primo incontro ha avuto luogo a Roma, presso la sede dell’UCEI, mentre quelli successivi hanno dovuto svolgersi su internet, a causa della pandemia da Covid. Il tavolo di consultazione implica un reciproco riconoscimento, anche se la strada per un’assunzione da parte dell’UCEI della responsabilità di tutti gli ebrei italiani, compresi quelli che si ispirano all’ebraismo progressivo, appare ancora molto lunga. Le due delegazioni sono molto diverse: in quella dell’UCEI sono presenti due rabbini (Riccardo Di Segni e Giuseppe Momigliano) e due consiglieri laici, Davide Jona Falco e Livia Ottolenghi. La delegazione della FIEP è più numerosa e ha una diversa fisionomia. Non è presente, per una precisa scelta, nessun rabbino, mentre hanno un ruolo significativo le due presidenti Franca Eckert Coen e Joyce Bigio, ed i rappresentanti delle varie comunità (Carlo Riva per Lev Chadash, Daniela Gean per Beth Hillel, Carey Bernitz per Beth Shalom, Leonard Robbins e lo scrivente per Shir Hadash). L’apertura di un dialogo fra queste due diverse realtà associative è un passo molto importante per l’ebraismo italiano, e mette a confronto una presenza di oltre duemila anni con una di appena venti anni. Ho però fiducia che il seme del dialogo appena piantato possa col tempo portare buoni frutti.

Sono convinto che gran parte dei problemi e delle difficoltà in cui si dibattono le istituzioni ebraiche tradizionali in Italia derivino dalla legge Falco del 1930 (voluta da Mussolini l’anno successivo al concordato con la Chiesa cattolica) che aveva lo scopo principale di mettere la vita delle istituzioni ebraiche sotto il controllo della dittatura fascista. Le nefaste conseguenze di quella legge hanno imbrigliato ed inaridito le nostre comunità, rese simili a parrocchie cattoliche. Quella legge ha istituzionalizzato una gerarchia rabbinica in una forma piuttosto estranea alle nostre tradizioni. Inoltre, questo assetto rigidamente centralizzato ha permesso ai nazifascisti di ottenere facilmente la lista completa degli iscritti e ha consentito di prelevare gli ebrei casa per casa, facilitando l’opera di deportazione e sterminio. Le varie revisioni della legge Falco del 1930, l’Intesa con lo Stato (1989) e lo Statuto dell’UCEI (2016) hanno modificato troppo poco l’impianto giuridico voluto da Mussolini e dagli ebrei filofascisti. Questo fatto era stato rilevato anche da Rav Giuseppe Laras, che nella sua ultima lettera (dicembre 2017) – vero e proprio testamento spirituale – ha voluto rendere esplicite le sue (e nostre) preoccupazioni. Cito per esteso alcune sue frasi:

“…il mondo ebraico italiano è giunto a una fase accelerata di consunzione e inaridimento. Il nuovo statuto è già vecchio e privo di vigore nella pratica, sicché servirà quanto prima che vi sia un congresso straordinario, che duri qualche giorno, ove siedano insieme rabbini, presidenti delle comunità e consiglieri, giovani, lucidi analisti dalla Francia e da Israele, membri delle kehillot italiane ed in Eretz Israel. È necessario e quanto mai urgente pensare, senza romanticismi, senza compiacimenti esterni e senza voler indorare pillole alcune, a un’architettura nuova per le sfide prossime che solleciteranno l’ebraismo italiano, dopo un cammino secolare… Non farlo sarebbe folle e suicida, nonché ingiusto nei loro e nei nostri riguardi… È urgente che si ribalti la rappresentatività e l’autocoscienza istituzionale dell’ebraismo italiano su questi temi, invece che essere vittime di malumori tra potentati familiari, pruderie di circoli intellettuali avulsi dal reale e insofferenti rispetto a molti drammi e paure della nostra gente, vanità di alcuni pronti a compiacere per essere compiaciuti… la sfida è enorme e, che ci piaccia o meno, saremo obbligati a raccoglierla: prego chi ha ruoli di responsabilità di non tardare e di aver coraggio, anche se si sente non all’altezza della situazione o da quest’ultima oppresso. Sono certo che l’ebraismo italiano, con tenacia, saprà tener testa a queste difficoltà…”. Purtroppo l’invito di Rav Laras non è stato raccolto in pieno, e non si vedono importanti segni di cambiamento, ma il tavolo di consultazione fra UCEI e FIEP indica una strada di innovazione che forse potrà essere percorsa con un po’ di ottimismo.

Un altro segno di ottimismo lo ritrovo nella lunga vita di Ha Keillah, raro esempio di stampa libera e vitale all’interno delle nostre comunità, e non solo. Forse questo giornale può farsi portavoce dell’istanza di Rav Laras, e fare appello all’ottimismo della volontà (senza però rinunciare al pessimismo della ragione). Spero anche che a Torino possa costituirsi una comunità progressiva, che introduca un po’ di rinnovamento e di necessario pluralismo, anche nella dimensione religiosa, aprendo un’altra preziosa via di uscita dalla torre d’avorio.

Sandro Ventura

                                               
                                                                    Vignetta di Davì