OTTOBRE 2021 ANNO XLVI-230 CHESHVAN 5782

 

 

Israele

 

 

 

Il nuovo governo dopo i primi 100 giorni:
il mondo benevolo, ma l’occupazione?

Giorgio Gomel

 

È bizzarro osservare, ma forse è la misura dello Zeitgeist del mondo intorno a noi, come la comunità delle nazioni guardi con occhio benigno al nuovo governo di Israele sebbene questo stesso riveli senza particolari infingimenti che durante il mandato in corso non vi sarà un tentativo serio di giungere ad una soluzione negoziata del conflitto con i palestinesi. Altre sono le priorità, anche legittime: le disfunzioni di una democrazia incompiuta, la gravità della pandemia, l’acuirsi delle diseguaglianze sociali, l’esplodere di violenze interetniche fra arabi ed ebrei, il rapporto malato fra religione e stato, il potere straripante degli ortodossi sulla vita civile del paese.

Bennett è ideologicamente opposto alla nascita di uno stato palestinese, pur con sovranità limitata e in rapporti di buon vicinato con Israele; Lapid – Ministro degli esteri, futuro primo ministro e leader del partito largamente maggioritario della coalizione di governo – non è contrario al principio di una soluzione basata sul principio di “due stati per due popoli”, ma non ritiene che la si possa o debba tradurre in atto al momento. L’immagine un po’ oleografica che colora il dibattito pubblico nel paese è quella del “ridurre il conflitto”, secondo i dettami di Micah Goodman, filosofo, ideologo della destra intelligente e assertore nel suo saggio del 2017 (Catch-67) della nozione che, essendo l’occupazione un errore, ma un errore ineliminabile, l’unica soluzione è tendere a ridurre l’impasse che attanaglia i due popoli in un conflitto asimmetrico ed apparentemente irrisolvibile. Come? Concedendo un po’ più di autonomia alla ANP, ritirando l’esercito da alcune aree limitate della Cisgiordania, offrendo diritti di residenza ad un certo numero di palestinesi abitanti in Cisgiordania: In sintesi, mantenere il controllo militare dei territori, cioè, ma ridurne in qualche modo gli eccessi oppressivi.

Ritenere, come nella convinzione prevalente nell’opinione pubblica in Israele, che il conflitto possa essere gestito in forme “a bassa intensità”, che lo status quo possa essere sostenuto indefinitamente è illusorio, così come l’idea, anch’essa dominante nel paese, che nel disordine regionale convenga a Israele non assumere un’iniziativa di pace ed attendere eventi più propizi. I costi umani e materiali della “non pace” sono enormi, come attestano l’ennesima guerra di Gaza del maggio scorso (con circa 230 vittime fra gli abitanti della striscia e oltre 1000 case distrutte), il ripetersi ossessivo di violenze dei coloni contro vicini palestinesi e attivisti israeliani giunti in loro soccorso, lo stillicidio di vittime palestinesi in scontri con l’esercito sulle strade di Gerusalemme e della Cisgiordania.

Godendo dei vantaggi derivanti dall’euforia gratificante del mondo dopo la fine dell’era Netanyahu Bennett ha potuto incontrare Biden e il presidente egiziano Al-Sisi, così come in un meeting ufficialmente “segreto” il sovrano giordano Abdullah. Le celebrazioni del primo anno degli accordi di normalizzazione, detti accordi di Abramo, hanno mostrato nei fatti come fossero per ora illusorie le attese di coloro – persone di buona volontà – che speravano che gli accordi potessero dischiudere un orizzonte più positivo circa il negoziato con i palestinesi e un impegno politico-economico dei paesi del Golfo e di altri stati arabi che, pur non più legati al principio che la fine dell’occupazione e la nascita di uno stato di Palestina siano conditio sine qua non per il riconoscimento di Israele e normali rapporti con esso, siano disposti a premere su Israele a tal fine.

L’incontro del ministro della Difesa Gantz con il Presidente Abbas – primo del genere dopo 10 anni – è stato importante, ma limitato a questioni relative alla cooperazione in materia di sicurezza fra l’esercito di Israele e la polizia dell’ANP.

Infine anche nella sessione dell’assemblea generale dell’ONU di settembre, la questione è rimasta nella penombra. Un accenno minaccioso da parte di Abbas nel suo messaggio circa l’intento di revocare gli atti di riconoscimento del confini israeliani pre-1967 e gli accordi di Oslo è suonato come irrilevante in un contesto interno molto difficile dopo il rinvio delle elezioni parlamentari e presidenziali in Palestina e il crescente dissenso che l’ANP incontra nell’opinione pubblica, in particolare nelle fasce giovanili.

Biden, Borrell e Merkel non hanno di fatto neppure alluso alla questione al di là di un generico appello a qualche progresso circa la ripresa dei negoziati.

Sarebbe opportuno – ed è questa una posizione di JCALL nei rapporti con governi e parlamenti di diversi paesi europei - spingere la UE ad un’azione di mediazione più fattiva, lungo le linee di una proposta avanzata dal Policy Working Group – un gruppo informale di ex diplomatici ed accademici israeliani di grande levatura. I punti rilevanti della stessa sono: a) formare una “coalizione di volenterosi” europei che agisca per una ripresa del negoziato, coordinando in primis con gli Stati Uniti e con paesi arabi (Egitto, Giordania); b) premere sull’ANP per lo svolgimento delle elezioni per ora indefinitamente posposte; c) avviare contatti con Hamas sotto la condizione che essa abbandoni la violenza al fine di giungere ad una tregua di lungo termine con Israele e ad una ricostruzione dell’economia e della vita civile nella striscia rimuovendo il blocco imposto da Israele e impedendo ulteriori atti di un’inutile e sciagurata guerriglia; d) distinguere nettamente fra Israele e le colonie nei territori, rafforzando le direttive europee in materia di “etichettatura” puntuale delle produzioni israeliane degli insediamenti; e) riconoscere formalmente lo stato di Palestina – un atto che ancorché simbolico date le condizioni sul terreno potrebbe essere efficace al fine di una trattativa di pace fra due stati.

 Giorgio Gomel

 

Aliah, foto di Giulio Momigliano