DICEMBRE 2021 ANNO XLVI-231 TEVET 5782
Israele
Pionieri o coloni?
Chi sono gli ebrei dei territori oltre la linea verde
Giorgio Berruto
Eroi o violenti prevaricatori? Pragmatici, realisti, utopisti, fanatici messianici, nazionalisti, sionisti o antisionisti? Gli ebrei che vivono nei territori occupati da Israele durante la guerra lampo del 1967, un conflitto sulla cui natura difensiva per lo stato ebraico non si insisterà mai abbastanza, sono tutto questo e altro ancora. Abbondano i fondamentalisti religiosi come Nati Rom, personaggio inquietante che vanta l’edificazione di svariati insediamenti illegali in Samaria e auspica la distruzione delle moschee di Gerusalemme per lasciare posto al terzo tempio. Ma nonostante sia un po’ come discettare di balene con il capitano Achab, discutere con Nati Rom e con quelli come lui dei territori è un’esperienza interessante. O forse è interessante proprio per questo, cioè per cercare di capirne il ragionamento, senza naturalmente giustificarne le aberrazioni. Allo stesso tempo, tra i residenti ebrei oltre la linea verde non mancano coloro che hanno compiuto una scelta dettata dal più basso costo delle abitazioni e della vita rispetto alle grandi città, una scelta dunque poco o per nulla ideologica. Quello che è certo è che i coloni, con tutte le differenze che li contraddistinguono, costituiscono una parte sempre più grande e influente della società israeliana. Solo un paio di decenni or sono le kippot bene in vista sul capo degli uomini per le strade delle città, nei mercati, nelle trasmissioni televisive e nei ministeri erano una frazione di quelle che si vedono oggi, a testimoniare il numero crescente di persone che vive contemporaneamente nella modernità e nella tradizione. Da pochi mesi lo stesso primo ministro, per la prima volta nella storia, indossa la kippà e proviene da un’area ideologica, quella del Benè Akivà, che ha sostenuto più di ogni altra gli insediamenti ebraici nei territori che la comunità internazionale considera occupati.
Una provincia del mondo
Giudea e Samaria, West Bank (Cisgiordania), territori occupati o contesi oppure semplicemente Territori. Dalla scelta delle parole passano giudizi e pregiudizi. Comunque un frammento di terra che, tutto insieme, è grande poco meno di 6000 chilometri quadrati, la dimensione della provincia di Torino. Una parte della regione, inoltre, è coperta da terreno arido, desertico o montuoso. Non sembrano premesse in grado di accendere gli animi, e invece come noto le cose stanno diversamente. Allora, per capire il motivo che ha spinto centinaia di migliaia di ebrei a stabilirsi oltre Gerusalemme, verso la valle del Giordano, il mar Morto e il deserto di Giudea, occorre ascoltare direttamente loro, i coloni. Lasciarli parlare e coglierne il pensiero, come diceva Amos Oz che, pure da posizioni critiche, ha cercato in più occasioni di costruire con costoro un dialogo. È quello che con una serie di conversazioni ha fatto recentemente il giornalista Pietro Frenquellucci (Coloni. Gli uomini e le donne che stanno cambiando Israele e cambieranno il Medio Oriente, Leg) e, in un contesto narrativo, il romanziere Assaf Gavron (La collina, Giuntina).
Back to the future
Con la vittoria nella guerra dei sei giorni Israele si trova a controllare l’intera regione dal Mediterraneo al Giordano, abitata all’epoca da circa un milione di arabi palestinesi. Subito dopo il conflitto - har habayit beyadenu, “il Monte del tempio è nelle nostre mani” - l’immagine di una vittoria miracolosa voluta dall’alto si fa strada in migliaia di cuori suggestionati dal successo tanto schiacciante quanto repentino. La radio trasmette a ripetizione Yerushalaim shel zahav, la canzone simbolo di Naomi Shemer diventata un secondo inno nazionale di fatto, il fantasma del messianismo si aggira per il paese e si annida nelle menti. Come spiega Elyakim Haetzni, tra i fondatori di Kiryat Arba, “la liberazione ha avuto l’effetto di spezzare le catene psicologiche che ci impedivano di pensare alla possibilità di tornare a vivere su tutta la terra della Bibbia”, secondo gli insegnamenti di rav Kook. Liberazione, tornare, terra. In occasione della festa di Pesach dell’anno seguente, 1968, un certo Levinger, rabbino tanto sconosciuto quanto ebbro di Dio, con alcuni sodali va a celebrare il seder in un albergo di Hebron, nel cuore dei territori, poi però rifiuta di lasciare la città a festa finita. Sono il luogo e la data che segnano un inizio. Uno dei compagni di Levinger commenta: “Dio ci ha mostrato il modo di riscattare la nazione ebraica”. Nel 1974 nasce Gush Emunim, un movimento a vocazione messianica con forti legami con il mondo evangelico nordamericano che promuove l’emigrazione ebraica nei territori. Forse non a caso molti dei leader del movimento, ieri come oggi, provengono dalle comunità ortodosse statunitensi e canadesi. Nel 1977, quando il Likud di Begin vince le elezioni e i laburisti per la prima volta vengono estromessi dal governo, i coloni sono circa diecimila, ma con la destra che in campagna elettorale ha sostenuto esplicitamente il Gush Emunim gli insediamenti in pochi anni si moltiplicano. Nel 1997 la popolazione ebraica che vive oltre la linea verde, senza contare i residenti nell’area metropolitana allargata di Gerusalemme, tocca quota 161mila persone. Nel 2007 278mila. Nel 2017 420mila. Il 1° gennaio 2020 463mila. Una crescita impressionante perfino se comparata alla crescita demografica complessiva di Israele. Oggi sono 132 gli insediamenti riconosciuti dal governo israeliano e 121 gli avamposti non ufficiali che hanno chiesto, e non (ancora) ottenuto, il riconoscimento. Non deve ingannare la parola “avamposti”: a volte sono baracche in lamiera senza servizi igienici in cima a una collina, più spesso però gruppi di case che non hanno nulla di precario o instabile. A renderle solide è la certezza che il vento della storia soffi alle spalle spingendo verso il futuro; che un dio, in altre parole, sia con noi.
Terra
“Dopo duemila anni siamo tornati nella nostra terra”, dice Benny Katzover; “Non sono venuto qui a prendere qualcosa che non è mio, è scritto nella Bibbia che questa terra mi appartiene”, aggiunge Jonathan Segal. L’identità dei coloni è un impasto di terra, fede e sangue e si fa forte del riferimento costante alla Torah. C’è chi sostiene che in questo libro tutto sia scritto, non solo gli avvenimenti del passato ma anche quelli del futuro. Allora si tratta di andare a cercare i luoghi biblici per inverare le antiche profezie, come spiega Katzover, produttore di vini d’eccellenza a Elon Moreh in Samaria. Shechem, Shilo, Ebal, Bet El, Kyriat Arba: i nomi degli insediamenti sono scelti apposta per evocare quelli biblici. La parola del mito e della letteratura orienta le scelte degli uomini e modella di conseguenza la realtà. Abramo è “il primo colono”, conclude Katzover, ma le storie dei patriarchi non sono l’unico riferimento per lui e i suoi compagni. Se è vero che in ogni epoca gli ebrei si identificano con diversi modelli biblici, i transfughi dalla Spagna scelgono il passaggio del mar Rosso, i marrani l’ebrea nascosta Ester, i primi sionisti Abramo che lascia la città natale, gli intellettuali tra Ottocento e Novecento l’afflato universalistico dei profeti, i protagonisti delle aliyot dai paesi arabi l’esodo. Della Torah, ai coloni, interessano in particolare i patriarchi con i luoghi dei loro pozzi, dei pascoli e delle sepolture e il regno con le storie di sangue e le guerre con i filistei.
Come ha scritto il demografo Sergio Della Pergola, oggi circa il 60% degli israeliani accetterebbe in linea teorica i due stati, una maggioranza che però continua a contrarsi. Negli anni dopo il 1967 ha cominciato ad affacciarsi l’idea che le terre occupate durante la guerra non dovessero essere scambiate con la pace. Pochi fanatici messianici che però sono aumentati di anno in anno, fino a comprendere anche porzioni di opinione pubblica laica. La stessa violenza del terrorismo palestinese non sembra potere nulla contro chi, come Boaz Haetzni, si ostina a rimanere “perché quello che ci interessa è la terra”, costi quel che costi. Annalia Della Rocca è più moderata: “Se per caso, per la pace, mi diranno di andar via, non mi metterò di traverso”. Ma questa, per entrambi e per centinaia di migliaia di altri, rimane Eretz Israel, la terra di Israele che è ciò che più conta, uno spazio dato da Dio al popolo ebraico per l’eternità, senza che nessuno possa sottrarsi al dovere di abitarvi e farlo fiorire. Medinat Israel, lo stato di Israele, è invece un prodotto umano, frutto di decisioni e politiche e guerre umane, non di una promessa divina, perciò il legame con esso è minore. Lo stato, suggerisce Ariel Viterbo, è il semplice “strumento per rendere possibile la vita ebraica nella terra d’Israele, però se si trovasse un’altra formula, un altro strumento, ad esempio uno stato binazionale, credo che la soluzione sarebbe possibile e accettata”.
Fede
La premessa secondo cui la terra è nostra perché Dio ce l’ha data è accompagnata dalla certezza inscalfibile che Dio sia con noi. Ma i coloni non sono tutti estremisti disposti a difendere gli insediamenti a qualunque costo. Della Pergola stima circa 1500 persone pronte anche a sparare e che hanno in effetti già sparato sia contro ebrei, a partire da Rabin, sia contro arabi palestinesi. Costituiscono una frangia ridotta attiva nell’edificazione di nuovi avamposti illegali che talvolta vengono sgomberati dall’esercito israeliano e talvolta no, ma che si nutre del sostegno più o meno esplicito di una porzione di opinione pubblica significativa nella logica dei cerchi concentrici: sono relativamente pochi ad agire, di più a incoraggiare, di più a sostenere, di più a giustificare, di più a tollerare, più ancora a non fare nulla per evitare. Così si arriva al crimine. Gli irriducibili, convinti di essere strumento di un disegno che va oltre la volontà dell’individuo, sono quasi sempre ispirati da veri o presunti rabbini fondamentalisti, comunque legati al mondo religioso e non di rado propugnatori di forme di suprematismo ebraico. Ci sono poi i realisti, secondo i quali invece è indispensabile trovare un equilibrio che permetta la convivenza controllando gli estremisti. Ma anche in questo caso la premessa comune è che la terra ci appartiene, il rifiuto della violenza è quindi conseguenza soprattutto di un ragionamento pragmatico e non ideologico. Come spiega Haim Zaid, “bisogna dare una possibilità ai palestinesi di lavorare, di guadagnare e alzare il loro livello di vita. È questa la cosa più importante, se si offre loro questa possibilità, non vorranno altro”.
Sangue
Il movimento dei coloni, arrivato ormai a mezzo secolo di vita, ha già da tempo elaborato una serie di miti di fondazione, che coincidono con l’iniziativa degli eroici pionieri disposti a mettersi radicalmente in gioco, lasciare la propria casa e andare a piantare una bandiera in cima a una collina in territori abitati da una popolazione a dir poco ostile. Come dice Nati Rom, “siamo noi, oggi, i veri pionieri”, gli eredi dei fondatori dei kibbutzim. I miti di fondazione, però, hanno a che fare anche con il sangue, cioè con i sacrifici fatti e le violenze subite. Come nei paesi del Far West, anche negli insediamenti in Giudea e Samaria luogo simbolico fondamentale è il cimitero. Anche per questo non ce ne andiamo, non possiamo lasciare i nostri morti assassinati dai terroristi, spiega Katzover accennando al cimitero di Elon Moreh e a quello più grande di Itamar.
Manca qualcuno?
Manca qualcuno all’appello? Non per il movimento dei coloni, o almeno per la sua riconosciuta leadership. Eppure è difficile non vedere un vuoto clamoroso in quanto finora emerso, il vuoto dell’altro, del diverso, dell’arabo palestinese. Quello stesso palestinese che come il colono ebreo ha una storia, una lingua, una serie di valori: relativamente recenti, è vero, ma non vale lo stesso per i coloni? Dal punto di vista identitario non sono entrambi conseguenze impreviste della guerra dei sei giorni? Ma per i coloni il palestinese è come se non ci fosse. Conta meno, molto meno, di un albero o di una pietra, che permettono di riunire modernità e antichità grazie al riferimento al testo biblico. Invece, nelle parole dei coloni, il palestinese semplicemente non c’è o sarebbe meglio se non ci fosse. “Quando vorranno vivere in pace noi saremo pronti a farlo”, afferma Noam Arnon, portavoce della comunità ebraica di Hebron. Alle nostre condizioni però. L’attuale assetto nei territori è un esperimento di stato binazionale che sonda le possibilità e i limiti di una convivenza tra diverse comunità; ma poiché lo stato binazionale di fatto non è anche di diritto, e di conseguenza i palestinesi non sono cittadini, la tenuta democratica di Israele è a rischio. Nei territori anche la popolazione araba cresce a ritmo serrato anno dopo anno e oggi ammonta a circa due milioni e mezzo di persone (senza considerare Gaza). Per questo, e per la crescita degli insediamenti ebraici, da anni in Israele si parla di una battaglia demografica ed è probabile che i numeri peseranno sugli assetti futuri. Ma tra i coloni c’è anche chi, come Edoardo Recanati, non nasconde la certezza della vittoria: “Lui [Dio] ci sbarazzerà dei palestinesi”.
Una storia moderna
Nonostante sia aperto un dibattito, credo che quello dei coloni sia un fenomeno moderno, per comprendere il quale non è sufficiente fare riferimento al tentativo di realizzare una possibilità per millenni sognata dagli ebrei. Il movimento dei coloni è conseguenza impronosticabile di un movimento laico in aperta polemica con la cultura religiosa come il sionismo. Certo, è un rovesciamento ironico della storia che a dirsi sionisti e piantare le bandiere di Israele negli avamposti sulle colline siano giovani con peyot e kippà srugà, la kippà all’uncinetto che costituisce un vero e proprio segno di identificazione. Eppure il movimento nasce da lì, non dalle yeshivot; dalla modernità, non dall’antico. Naturalmente, rispetto al sionismo di Herzl che auspicava la nascita di uno stato per gli ebrei come gli altri, ma senza antisemitismo, i coloni sono antisionisti. In modo molto diverso dai cosiddetti ultraortodossi, che in molti casi è forse più corretto definire asionisti nella misura in cui considerano nullo il valore dello stato (Medinat Israel), i coloni si sono impossessati dell’idea sionista per piegarla ai propri valori e distruggerla dall’interno. Se è la terra (Eretz Israel) ciò che più conta e lo stato un semplice strumento, allora in caso di conflitto è plausibile o addirittura necessaria la violenza contro lo stato e i suoi rappresentanti, per esempio i soldati inviati a sgomberare un avamposto illegale. L’ideale di Eretz Israel hashlemà è quello della terra d’Israele intera, cioè completa e dunque perfetta, dalla stessa radice di shalom, pace, territorio contemporaneamente geografico e simbolico. Una pace che però non comprende la convivenza con l’altro, il palestinese. D’altronde i coloni hanno un formidabile asso nella manica, come spiega Elyakim Haetzni: “Tutti i governi di Israele [a prescindere dal colore politico] non sanno cosa fare con gli ebrei di Hebron. Non sanno cosa vogliono e questo è il problema. Non sanno dove vanno. Io lo so, invece”. Le certezze granitiche, come noto, nascondono a tutte le latitudini il germe del fondamentalismo.
Giorgio Berruto
Carlo Levi, Nello Rosselli, 1929
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