MARZO 2022 ANNO XLVII-232 ADAR 5782

 

 

Israele

 

La banalità maligna dell’occupazione

Giorgio Gomel

 

In queste prime settimane dell’anno è un susseguirsi di atti di brutalità nei territori occupati. Coloni di Givat Ronen (uno dei 150 insediamenti abusivi che si sommano ai 138 ufficialmente riconosciuti dallo stato di Israele) hanno aggredito abitanti palestinesi nel villaggio di Burin a sud di Nablus e attivisti israeliani per la pace membri di Rabbini per i diritti umani, Machsom Watch e altre ONG, giunti in loro soccorso. Qualche giorno prima un anziano palestinese Omar Asad veniva abbandonato morente di notte lungo una strada della Cisgiordania dopo essere stato fermato senza alcun preavviso da soldati del battaglione Netzah Yehuda, un reparto dell’esercito composto di haredim, “giovani delle colline” ribelli alle famiglie, estremisti Hardal di formazione nazional-religiosa, già colpevoli di atti di violenza in circostanze precedenti.

Più in generale le statistiche mostrano un aumento inquietante di violenze perpetrate da coloni fanatizzati – aggressioni fisiche, atti di vandalismo, devastazioni di frutteti ed uliveti: 363 episodi nel 2019, 507 nel 2020, 416 soltanto nella prima metà del 2021. Denunce puntuali sono documentate in rapporti di ONG israeliane quali Yesh Din, B’tselem e Peace Now. Polizia ed esercito tollerano, non reprimono. In molti casi vi sono connivenze dei militari che filmati sul terreno mostrano schierati in difesa dei coloni dalla reazione di autodifesa dei palestinesi aggrediti.

 In un articolo pubblicato da Haaretz in gennaio tre generali, ex comandanti delle unità dell’esercito in Cisgiordania, denunciavano che la violenza di coloni estremisti “compromette l’azione di deterrenza dell’esercito rispetto alle minacce palestinesi, pregiudica la cooperazione in materia di sicurezza con l’ANP, è moralmente intollerabile, corrode la sicurezza di Israele e dei suoi cittadini”. Gli ingredienti ideologici di tale violenza sono ben noti: l’estremismo nazional-religioso, il concetto fondamentalista dell’integrità della Terra di Israele riservata al possesso di soli ebrei, il tentativo deliberato di espellere abitanti palestinesi spossessandoli di terre e mezzi di sussistenza, una subcultura di impunità per cui una miriade di insediamenti, pur illegali secondo la stesso diritto israeliano, sono in realtà tollerati e non rimossi, l’incapacità del sistema giudiziario di punire atti criminosi.

 Molti di questi insediamenti abusivi vengono poi legalizzati dallo stato allo scopo di favorire i piani di annessione de facto di vaste zone dell’area C; l’amministrazione israeliana li connette al sistema elettrico e di distribuzione dell’acqua del paese. Dal 2011 lo stato distingue fra insediamenti costruiti su terre che sono proprietà privata di palestinesi e altri situati su terreni dichiarati “state lands”, una distinzione che confligge con il diritto internazionale. Quelli edificati su terreni privati dovevano essere rimossi; ciò non è avvenuto. Un caso recente ed eclatante è quello di Evyatar a sud di Nablus: fondato nel 2013, i suoi residenti furono evacuati l’anno scorso dopo un lungo negoziato, mentre le strutture abitative e una scuola religiosa rimasero intatte. È stato ora autorizzato con atto legale retroattivo dal Procuratore dello stato Mandelblit appena qualche giorno prima dello scadere del suo incarico. Tale atto consentirà al governo di costruire un nuovo insediamento su terreni che appartengono al villaggio palestinese di Beita dove le proteste degli abitanti hanno portato nei mesi scorsi ad una sequela di scontri con l’esercito con vittime sul campo. I partiti di sinistra al governo protestano; lo stesso ministro degli esteri Lapid si oppone ad una siffatta decisione paventando una reazione avversa dell’Amministrazione americana.

Dunque la violenza paga. La patologia sottostante è il regime di occupazione: un esercito posto a protezione di quasi mezzo milione di ebrei israeliani insediatisi nei territori. A cosa servono allora i proclami del ministro della difesa Gantz o della polizia Bar Lev che giustamente definiscono “terroristici” gli atti di tali coloni o la dignitosa risposta dello stesso Lapid ad un documento redatto da sette organizzazioni ebraiche americane mainstream “… Coloro che compiono atti di violenza sono una minoranza estremista della comunità ebraica in Cisgiordania oggetto di condanna dai leader politici del paese … Il governo è impegnato nel reprimerli dovunque accadano e da parte di chiunque li commetta …” , quando tali crimini sono una routine ordinaria nei territori?

Come asseriva nel 2017, il cinquantesimo anno dalla guerra del giugno 1967 e dall’inizio dell’occupazione, un “Appello agli ebrei del mondo: se amate Israele, il silenzio non è più un’opzione possibile”, firmato da 500 intellettuali, accademici, ex ministri e parlamentari di Israele – da Amos Oz a Avishai Margalit, da Elie Barnavi a David Grossman, da Zeev Sternhell a Daniel Kahneman, “ l’occupazione non solo opprime e ferisce in primis i palestinesi ma corrompe le fondamenta morali e democratiche dello stato di Israele” . Essa corrode lo stato di diritto, minaccia con le sue ramificazioni la stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele.

Larga parte degli israeliani è insensibile agli effetti dell’occupazione, ai costi materiali e morali che essa impone ai due popoli. L’estremismo e le sue degenerazioni violente diventano, nella psicologia collettiva, un che di banale, di ordinario. I sondaggi rivelano che parte preponderante del paese ritiene che il dominio che Israele esercita sui palestinesi non sia “occupazione”. Ma come chiamare una realtà, in cui vi è un sistema legale doppio e separato - militare per i palestinesi, civile per gli abitanti ebrei ivi insediatisi -  un potere, quello della Civil Administration, braccio amministrativo dell’esercito, che espropria terreni privati per insediamenti ebraici e decide unilateralmente in materia di permessi edilizi, di confisca di terre per uso militare, di permessi di transito e di lavoro? Una tale pervicace cecità è il risultato deliberato di anni di rimozione della realtà (la linea verde, il confine armistiziale pre-67 rimosso dalle mappe, dai libri di scuola, dai documenti ufficiali dello stato).

Giorgio Gomel

 

Eva Romanin Jacur, Mordechai,
dal Libro di Ester, ed. Logart Press

Share |