MARZO 2022 ANNO XLVII-232 ADAR 5782

 

 

Storia e memoria

 

 

Parole identitarie

Alessandro Treves

 

L’altra domenica ho assistito ad un incontro online organizzato dal Gruppo Italiano Giovani e Linguistica (“GIGLi”), in cui una dozzina di laureati e dottorandi presentavano i propri lavori, sugli argomenti più vari. C’era chi aveva studiato la prassi colloquiale della lingua dei sinti dell’Italia settentrionale, in particolare di come la usano inframezzata all’italiano sui social network e su whatsapp; esprimendo la loro identità distinta da quella delle altre genti della piazza, giostrai ed artisti di strada “dritti”, a da quella dei “fermi”, noi cosiddetti stanziali. Soi disant

C’era un lavoro sull’evoluzione del linguaggio delle donne omosessuali americane, centrato sull’analisi del romanzo cult Stone Butch Blues di Leslie Feinberg (“butch” viene spesso impropriamente tradotto come “camionista”). Nel romanzo, un ruolo non insignificante ha l’ebraismo (suo e della protagonista Jess Goldberg), accanto al comunismo e ad una complessa identità di genere. Coinvolgente. 

C’era poi la presentazione della tesi di laurea di Federico, lo studente che mi aveva detto dell’incontro, su alcune caratteristiche fonologiche dell’ebraico di Tiberiade. Più che una lingua, è fondamentalmente la canonizzazione della pronuncia dell’ebraico biblico, ricostruita o piuttosto immaginata dai grandi grammatici fioriti a Tiberiade dall’ottavo al decimo secolo, nell’Età dell’Oro dell’Islam, che ha prodotto anche i primi veri grammatici che, scrivendo in genere in arabo, si occupavano di ebraico. Molti di loro erano karaiti. 

La tesi di Federico era estremamente tecnica, discuteva di come descrivere teoricamente alcuni casi in cui consonanti occlusive diventano fricative, per poi soffermarsi sulla distinzione fra sottotipi di gutturali, in ebraico tiberiense, arabo classico e tigrè, lingua semitica dell’Eritrea. Era però difficile, dopo aver sentito parlare del linguaggio di altri gruppi umani marginalizzati, non riflettere sul fatto che il nostro ebraico si è tenuto insieme, per un millennio, sostanzialmente grazie alla codifica offerta alla pronuncia del testo sacro dall’amore di chi a quel testo fortissimamente teneva – dai karaiti. C’è come una poetica giustizia nel fatto che lo spirito dell’ebraismo karaita, marginalizzato e ormai pressoché dimenticato dalla preponderanza numerica dei rabbaniti, rimanga associato con la maniera corretta di leggere il Tanakh, il soffio vitale del popolo ebraico.

È arduo capire cosa, di quello che ci è stato tramandato sui karaiti, rifletta la prospettiva dei vincitori (vincitori a loro volta vittime in innumerevoli altre vicende). Una fase importante nello sviluppo di una corrente che non riconosce la sacralità della tradizione orale è stato certo il conflitto, nell’ebraismo babilonese dell’ottavo secolo, fra le sue autorità comunitarie e rabbiniche ed Anan Ben David, leader ribelle di nobile lignaggio e probabilmente di grande carisma. Conflitto che in qualche aspetto risuonava con quello fra farisei e sadducei molti secoli prima, e con quelli iniziati da altri gruppi insofferenti dell’autorità rabbinica, prima e dopo Anan. Ridurre però il fenomeno karaita alla lotta per il potere fra Anan e suo fratello sembra essere una caratterizzazione distorta dalla propaganda rabbanita, visto che neanche autorevoli oppositori di poco successivi ne fanno menzione. Si racconta che Anan sfuggito alla condanna a morte si sia spostato poi a Gerusalemme con un gruppo di seguaci ma, se anche la sua figura è all’origine del movimento, le sue opinioni in materia di halakhà, in parte correlate con quelle di sadducei ed esseni, non coincidevano del tutto con le norme poi consolidatesi fra i karaiti. Forse il termine “ananita” va inteso come un esonimo tipo “zingaro”, o “grillino”, tendente a marginalizzare, con scherno, chiunque rappresenti una sfida all’ordine dei “fermi”; soprattutto se esteso per alludere a tutti i gruppi non riconducibili all’obbedienza rabbanita. Secondo una stima di incerta validità, un paio di secoli dopo i karaiti arrivarono ad essere il 40% per cento degli ebrei nel mondo, una percentuale superiore a quella, già impressionante ma transiente, raggiunta dai grillini nelle elezioni del 2018.

Non è poi semplice, anche nell’usare l’endonimo “Bnei Mikrà”, o “karaiti”, associare il termine ad un’appartenenza per noi condivisibile o almeno intuibile. Si è certo persa la continuità emotiva con le istanze di ribellione di Anan Ben David, ma anche con la gloriosa stagione intellettuale di Tiberiade. Si può andare in pellegrinaggio al centro karaita di Ramle, che cerca di rappresentare e spiegare la tradizione dei 30000 karaiti egiziani (e qualche iracheno) approdati dagli anni ‘50 in Israele; però lo si fa col cuore pesante, nel vederli ridotti ad un misero 0.4% degli ebrei israeliani e prostrati da secoli di progressiva marginalizzazione. Cominciata in Egitto forse già 800 anni fa, quando dopo accese contrapposizioni alcuni di loro presero a far ritorno all’ovile – si racconta di un folto gruppo che fu riaccolto benevolmente nell’ebraismo rabbanita dal figlio di Maimonide.

Senz’altro più drammatica è stata la parabola dei karaiti della Crimea, i karaim o karaylar (il primo plurale in ebraico, il secondo nella loro lingua), dei quali è incerta anche l’origine, se discendano soprattutto dalla conversione dei khazari – endonimo che pare significhi vagabondi, ma in questo caso sarebbero l’etnia locale – oppure siano almeno in buona parte quello che rimane di migrazioni dal Levante. A favore della seconda ipotesi viene citato il fatto che le élite khazare appaiono essersi convertite all’ebraismo rabbanita, e centinaia d’anni prima della prima menzione dei karaim, e che l’indecifrata lingua dei khazari è diversa da quella dei karaim, sempre turcica ma di un’altra famiglia. Una questione che sembra destinata a rimanere senza risposta, come quella più generale dell’origine khazara della massa degli ebrei ashkenaziti “normali”. I moderni studi di genetica non hanno dato risposte univoche, semmai indicando un compromesso fra le varie ipotesi. 

Quello che appare evidente, però, è che i karaim non hanno beneficiato granché dalla scelta dei loro due ultimi eminenti hachamim di demarcarne con nettezza i confini identitari. Abraham Firkovich (1787-1874), la cui vita fra Volinia, Crimea, Palestina, Costantinopoli, Odessa, Vienna vale un romanzo, fu decisivo nel convincere l’impero russo, che aveva imposto pesanti misure antiebraiche, ad esentarne i karaim, in quanto questi, giunti in Crimea ancora prima della crocifissione di Gesù, non potevano essere ritenuti complici del deicidio. Teoria bislacca, che vagheggiando un distacco precoce dei karaim dalle vicende giudaiche era in completo contrasto con l’instancabile ricerca, da parte dello stesso Firkovich, di antichi manoscritti e rotoli della Legge, in Crimea come fra i Samaritani di Nablus e (forse) dalla Genizah del Cairo – alcuni dei quali poi contraffatti o da lui o da chi glieli aveva venduti. Ancora più romanzesca la vita di Seraya Shapshal, nato in Crimea un anno prima della morte di Firkovich, a raccoglierne simbolicamente l’eredità, e poi tutore del figlio dello Shah, ministro del governo persiano, spia russa, leader dei karaim di Crimea e poi di quelli di Vilna (allora in Polonia). Che si cambiò il titolo in corso d’opera, da hacham, saggio in ebraico, a hakhan, presunto derivato del khazaro kaghan, capo, come parte della sua dottrina della definitiva degiudeizzazione dei karaim, che comportava anche la reintroduzione di divinità pagane turcoidi come le querce sacre o il dio Tengri dei sacrifici. Degiudeizzazione che funzionò nello sventare la distruzione dell’ormai ridotta comunità ad opera dei nazisti, che in effetti si lasciarono persuadere che i karaim non erano ebrei. Dopo la guerra, Shapshal abdicò dal ruolo “religioso” di hakhan per prendere i panni del semplice storico e continuò a scrivere, basando in parte i suoi articoli su evidenti falsificazioni, fino alla morte nel 1961 a Trakai, antica comunità di karaim in Lituania. 

Ukrainer.net è un sito web che vuole valorizzare storia e tradizioni delle varie componenti della società ucraina – minacciata in questi anni e particolarmente in questi giorni dall’aggressione russa. Nella sua pagina sui karaim racconta fra l’altro del piccolo museo messo su vent’anni fa dagli ultimi 8 karaim di Halych, la cittadina di 6000 abitanti un tempo capitale dell’omonimo Regno di Galizia. Adesso di quegli 8 è rimasto solo Semen Mortkovych, l’ultimo dei galiziani a chiudere l’epopea iniziata (forse) con Anan Ben David. Non è esperto di grammatica – ha studiato da camionista – ma mantiene, grazie a una moglie volenterosa, la tradizione del kybyn, tortino di riso, cipolle e anatra.

 

Alessandro Treves – Trieste e Tel Aviv

 

Eva Romanin Jacur,
Eva e Leo

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