INTERVISTA A CLAUDIO MILLUL
HAIFA, GENNAIO 2024
Alla prima violenta eruzione del vulcano di Gaza hanno seguito 100 giorni di terremoto. E altri 20. Scosse continue. Moto perpetuo: i numeri inconcepibili delle vittime, degli ostaggi, dei dispersi. Il rincorrersi delle notizie dai fronti, la cronaca dei caduti quotidiani, i racconti dei superstiti alle stragi, le interviste ai parenti degli ostaggi, alle famiglie dei caduti. I resoconti ed i commenti dei media, le espressioni isteriche di parlamentari incoscienti, le immagini caotiche delle distruzioni di Gaza. E nelle ore insonni della notte le domande assillanti, i dubbi esistenziali: come si reinventa un percorso? Cosa aspetta ai nostri figli? Ai nipoti? Tutte le àncore smantellate. Caduta libera nel vuoto.
Quando David mi ha telefonato per chiedermi un articolo sulla situazione qui in Israele dopo il 7 ottobre la prima risposta è stata: “Adesso è ora di stare zitti. Silenzio”. Per poter dire qualcosa di sensato occorre un appiglio, un asse a cui aggrapparsi in questo mare turbolento. Poi ci ripenso: forse è quello che devo fare per provare a dare una mano anch’io. Testimoniare. Lo richiamo: “Ma forse se mi mandi qualche domanda specifica può aiutarmi a pensare: ci provo”. Ed ora che le domande sono arrivate la perplessità non svanisce, … anzi forse aumenta: il dialogo è così distante, le prospettive così diverse, la realtà così mutevole…
- Pensi che le recenti sentenze della Corte Suprema Israeliana avranno un’influenza sull’orientamento del Governo e/o sulla conduzione della guerra?
Le sentenze della Corte Suprema che hanno annullato il paragrafo che limitava drasticamente la legittimità dell’uso del criterio della attendibilità ed hanno rimandato alla prossima legislatura la validità delle limitazioni alla dichiarazione di “impedimento” del capo di governo, hanno importanza fondamentale prima di tutto per il fatto di ribadire la competenza della Corte nel respingere emendamenti a leggi fondamentali approvati con maggioranza semplice. Questo aspetto ripristina l’autorità ed il peso del potere giudiziario che era stato pesantemente compromesso dalle leggi approvate.
In questo senso le sentenze costituiscono senza dubbio una vittoria per il movimento di protesta nella contrapposizione alla riforma giudiziaria, ed uno scacco notevole per la maggioranza di governo. Di fatto però la loro influenza sull’orientamento politico del governo che mantiene la sua forza parlamentare, o tanto meno sulla conduzione della guerra è minima, ed anche le polemiche sull’opportunità di emettere queste sentenze in tempo di guerra si sono dileguate in pochi giorni.
- Prima del 7 ottobre Netanyahu era avversato per la sua proposta di riforma giudiziaria. Dopo è stato criticato per lo smacco militare del 7 ottobre. Se Netanyahu si dimettesse o fosse costretto a farlo o in caso di nuove elezioni quale potrebbe essere l’orientamento politico del nuovo governo, visti gli ultimi avvenimenti?
Il comportamento di Netanyahu è finalizzato principalmente a mantenere la sua maggioranza parlamentare e mettere in pratica la sua agenda politica, senza porsi il minimo dubbio sulla opportunità o la necessità di dimettersi.
Le cose potrebbero cambiare significativamente se venisse meno la compattezza della coalizione che portasse alla caduta del governo, e si dovesse quindi arrivare a nuove elezioni. Ma questo scenario (che in ogni caso richiede un minimo di 3-6 mesi per concretizzarsi) non ha alcuna probabilità reale né a livello di approvazione del bilancio straordinario del 2024 (al contrario, è l’occasione per la coalizione di mettere in atto tutti gli stanziamenti concordati nelle trattative di governo) né a livello di proposte legislative che possano scalfire la fiducia interessata del parlamento. L’unico tasto che potrebbe avere un peso decisivo in questo senso potrebbe essere quello di portare in parlamento una proposta legislativa che condizionasse la fiducia al governo alla liberazione degli ostaggi. Per quanto le divergenze a questo proposito comincino a trapelare, non si vede per il momento nessun approccio che promuova un processo politico di questo tipo. Tanto più vista la ostinatezza della controparte. Quale schieramento politico potrebbe coagularsi con i risultati di nuove elezioni e che indirizzo strategico potrebbe prendere il governo che ne sortirebbe non si rispecchia necessariamente negli esiti (per quanto promettenti) dei sondaggi attuali, e sarà comunque determinato dalle dinamiche concrete a livello nazionale e internazionale.
- In Israele ci sono state due mobilitazioni di massa: prima del 7 ottobre sui problemi della giustizia e dopo il 7 ottobre per il rilascio degli ostaggi. In entrambe le mobilitazioni il problema palestinese è sembrato assente. È errata questa impressione?
Non errata, ma troppo schematica. Le grandi manifestazioni che hanno mobilitato il paese nei primi 9 mesi del 2023, non sul “problemi di giustizia” ma per la difesa dell’assetto democratico e dell’equilibrio dei poteri, coinvolgevano movimenti diversi, a livello nazionale e locale, con modalità e coalizioni specifiche in ogni città. Il centro di coordinamento della lotta ha lanciato nel marzo ’23 lo slogan “è obbligatorio opporsi” che riassumeva i principali moventi delle manifestazioni: opporsi alla dittatura, opporsi allo sfaldamento dell’industria tecnologica e allo sgretolamento dell’economia, opporsi alla persecuzione degli “lgbt”, opporsi all’indebolimento dell’alta corte di giustizia, opporsi alla repressione dei diritti delle donne, opporsi all’occupazione della Cisgiordania “NON C’È DEMOCRAZIA CON L’OCCUPAZIONE”. Non c’è dubbio che il problema palestinese di per sé non è stato finora capace di sollevare una mobilitazione nazionale (anche per l’inattualità di un dialogo costruttivo) ma l’evolversi della mobilitazione per il rilascio degli ostaggi alla ferma richiesta di dimissioni del governo e proclamazione di nuove elezioni (insieme alla proposta di piano regionale avanzata da Biden) lasciano prevedere una revisione fondamentale del discorso politico in cui la soluzione del problema palestinese potrà assumere un peso primario.
- Gli antisionisti sostengono che in Israele vige un regime di apartheid. Cosa risponderesti sia per quanto riguarda il territorio dello Stato che i Territori occupati?
Di nuovo gli slogan fanno di tutta l’erba un fascio. All’interno dello Stato (nonostante il sensibile divario sociale e le gravi problematiche specifiche del settore arabo) il termine “apartheid” è senz’altro ingiustificato. L’inserimento dominante di medici arabi e personale coadiuvante nel sistema sanitario, come pure nell’ambito del servizio pubblico e di non pochi settori professionali e commerciali, fornisce una smentita di fondo a questo stigma. È chiaro che si tratta di processi lenti e faticosi che coinvolgono il progressivo mutamento della società araba da principalmente agricola a sempre più urbana, un progressivo superamento delle tensioni interne nell’ambito della stessa società, e che richiedono un supporto significativo della cassa pubblica, quale era stato stanziato dal governo Bennet-Lapid, e seriamente decurtato nei bilanci dell’attuale governo. È qui il caso di ricordare che nelle elezioni del 2020 in cui i partiti arabi si erano presentati con una lista unica sotto la leadership di Haiman Ude, avevano ottenuto una rappresentanza in parlamento di 15 seggi.
Nei territori occupati il discorso è diverso. L’assetto geopolitico concordato ad Oslo prevede una distribuzione diversificata dei diritti civili nel territorio:
Territori A, 18% della Cisgiordania, sotto autorità civile e militare palestinese
Territori B, 22% della Cisgiordania, sotto autorità civile palestinese (compreso il servizio di polizia) e autorità militare israeliana.
Territori C, 60% della Cisgiordania, sotto autorità israeliana.
Questo assetto, senz’altro carente e frantumato, avrebbe dovuto essere temporaneo per un periodo di 5 anni, per evolversi in una maggiore estensione dell’autorità palestinese su parte dei territori C. Ma, come sappiamo, si è congelato dopo la violenta rottura tra Hamas ed Autorità Nazionale Palestinese, con la conseguente rottura delle trattative. Con tutte le lacune del caso neanche qui si può definire una situazione di Apartheid, bensì di un accordo internazionale su un iter che si è solo parzialmente realizzato. È vero che la visione di Smotrich aspira ad una annessione totale della Cisgiordania ed alla limitazione degli insediamenti palestinesi in “bolle” separate. Ed è anche vero che con le sue “bande” dei “ragazzi delle alture” promuove la cacciata di famiglie e paesi di pastori, ma definire l’attuale situazione “apartheid” vuol dire dare per vinta l’ipotesi della destra estrema. Classico caso di esasperazione di situazioni estreme supportata dalla speculazione economica criminale dei dirigenti delle diverse reti di media.
- Alcune testate giornalistiche sostengono che il 7 ottobre l’IDF era impegnato soprattutto nei Territori per difendere gli ebrei dagli attacchi palestinesi. Cosa risponderesti?
Questa ipotesi è stata sollevata anche qui. Ma lascerei la risposta alle indagini che il capo di stato maggiore ha già iniziato, senza azzardare ipotesi immaginarie di complotti intenzionali.
- Analogamente si dice che nei Territori l’IDF non difenderebbe i palestinesi dagli attacchi degli ebrei integralisti. Cosa ci puoi dire al riguardo?
Domanda difficile. Non ho informazioni sufficienti per fornire una risposta documentata, se in assoluto esiste una risposta obiettiva ed univoca a questo doloroso proposito. La questione dei rapporti tra esercito, “mitnachalim” (coloni) e popolazione locale in Cisgiordania è da tempo all’ordine del giorno, e costituisce forse una delle più preoccupanti minacce al futuro della situazione. Sentiamo sempre più spesso accuse da parte dei mitnachalim contro i più alti ufficiali preposti alle forze locali (e non di rado contro l’esercito in generale) riguardo una presunta politica conciliante ed equilibrata. Per contro abbiamo assistito a non pochi episodi di mancato intervento delle forze dell’ordine in palesi violazioni dei diritti della popolazione locale, quando non addirittura atti di pesante intimidazione e di attiva violenza criminale. C’è anche da non dimenticare che un movimento di ebrei israeliani è da tempo impegnato in una attiva presenza di difesa e supporto dei pastori molestati dai mitnachalim, mettendo non di rado a repentaglio la loro stessa vita. A tutto questo si aggiunge la sconsiderata distribuzione di armi alla popolazione civile che Ben Gvir ha promosso in particolare nei territori, dove l’attrito tra popolazione ebraica e palestinese è più acuto, per far slittare la situazione rapidamente da tesa ad esplosiva. Non si può neanche minimizzare il fatto che in questo particolare periodo di guerra l’esercito è impegnato in una lotta intensiva contro la estesa organizzazione militare di Hamas sul “fronte orientale”, che certamente non semplifica il quadro.
- In un articolo pubblicato il 10 novembre 2023 dalla rivista di geopolitica Limes (diretta da Lucio Caracciolo) Antonella Caruso ventila l’ipotesi che la cacciata verso sud di migliaia di cittadini di Gaza fosse un programma formulato, tra gli altri, da Giora Eiland nel 2005, consigliere per la sicurezza di Sharon e uno degli artefici del ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. Questa proposta di cacciata sarebbe stata formulata al fine di consentire la creazione in territorio egiziano della cosiddetta Grande Gaza, abbozzo di un futuro stato di Palestina. L’odierna biblica migrazione verso sud sarebbe l’attuazione di quel vecchio piano. È fondata questa ipotesi?
Non direi assolutamente. I fatti ci dicono che tutte le operazioni militari sono scattate dopo il 7 ottobre come reazione di difesa agli eccidi di Hamas, e non rispondono ad alcun piano strategico predisposto. Tanto meno ad un piano attribuito a Giora Eiland, oggi su aperte posizioni di critica al governo. A distanza di un mese e mezzo dalla pubblicazione dell’articolo di cui parli, con lo spostamento del fulcro della guerra nella parte meridionale di Gaza, e la tensione col governo egiziano riguardo all’allargamento dei combattimenti nella zona di Rafiah, niente porta a rafforzare questa presunta ipotesi, che si pone su un livello di discorso astratto fumoso e distaccato dalla realtà.
- Si dice che in Israele sui mass media non si vedano le immagini più raccapriccianti delle vittime civili di Gaza, e che ciò avvenga per non incrinare il morale dei soldati dell’IDF. Sono fondate queste voci?
Non c’è dubbio che “la guerra delle immagini” giochi un ruolo predominante in tutti i conflitti moderni, e che il loro filtraggio, come il filtraggio dei resoconti, indirizzi profondamente la contrapposizione dei “narratives”. È anche vero che la “pornografia della guerra” attrae, e viene sfruttata scandalosamente dalle reti social per le loro manipolazioni sull’ “ingegneria delle coscienze”. Dopo di che le foto e i reportage delle operazioni di guerra e sugli scenari del conflitto sono parte integrante dell’ordine del giorno sui media, e non lasciano molto spazio all’immaginazione. Chi vuol vedere non ha nessuno schermo che glielo impedisca. Ma vorrei sottolineare che gli aspetti della tragedia civile della popolazione palestinese di Gaza, dalle distruzioni “tettoniche” di interi quartieri agli aspetti più umani delle sofferenze quotidiane, (compreso lo stesso concetto di “genocide” ed il dibattito alla corte suprema dell’Aja) non solo non sono assenti dalla consapevolezza del pubblico, ma fanno parte di un acceso dibattito, naturalmente con toni profondamente diversi a seconda delle posizioni degli interlocutori.
- ll mondo femminile palestinese è assente sui media, o compare solo nelle scene di dolore per le vittime. Pensi che se le donne palestinesi avessero voce in capitolo il problema palestinese sarebbe di più facile soluzione?
Non si può trasferire automaticamente una visione femminista occidentale nel quadro di una società religiosa mussulmana, sostanzialmente conservatrice, e profondamente maschilista sia a livello di autorità patriarcale, sia a livello di ethos bellico/terroristico. Non c’è nessuna donna tra i leader di Hamas. E che io sappia nemmeno nell’Autorità Palestinese. Il che non vuol dire che la voce femminile non si senta, anche a livello giornalistico, ed anche su articoli e interviste nei media israeliani. In genere direi una voce più pratica e concreta, focalizzata sui drammi umani, e meno invasa dalla retorica militante. È il caso qui di ricordare anche numerosi movimenti e organizzazioni di donne israeliane e palestinesi che collaborano per promuovere processi di incontro e di dialogo, opponendosi ad ogni violenza e appoggiando trattative di pace (“Women Wage Peace”, “Bat Shalom”, “Arba immaot” solo per fare alcuni esempi).
Ma trarre da qui conclusioni o illusioni politiche è a parer mio del tutto artificiale.
- Secondo te è ancora percorribile la soluzione “Due popoli due stati”?
Non solo percorribile: è l’unica moralmente accettabile. Richiede dalle due parti il reciproco riconoscimento delle colpe e degli errori commessi; comporta difficili processi di “auto-purificazione” dai veleni dei complessi di superiorità, dell’intolleranza e anche del razzismo che serpeggia nei nostri animi; impone il definitivo ripudio delle leggi della giungla come modello etico-politico. Voltare pagina e ricominciare da capo. “ISRAELE CAP. 2.0” ha scandito in modo tagliente il prof. Sergio della Pergola in uno dei suoi recenti incontri per via zoom di fronte a un pubblico di più di 300 partecipanti. Senza sottovalutare il fatto che al generale consenso sulla necessità di cambiamento radicale si contrappongono interpretazioni diametralmente opposte all’interno dell’opinione pubblica. Occorre da parte di tutti modestia, onestà, sacrificio, impegno, apertura, confronto, accettazione del diverso tra di noi, e non solo riguardo ai nostri partner. Tutto il contrario del vuoto “Insieme vinceremo” sbandierato a ripetizione come slogan “instant” che vorrebbe trasferire “in fotocopia” la fratellanza dei combattenti spalla a spalla in una società civile lacerata da dubbi, incertezze e sfiducia. Piuttosto “Impariamo a vivere insieme”. Superare le divergenze al nostro interno e guardare negli occhi ai nostri vicini per elaborare una concreta strategia di convivenza. Sarà difficile, forse un’impresa disperata: ma non abbiamo scelta. L’alternativa che incombe è il baratro della guerra civile. Due stati per due popoli: questa secondo me è l’unica strada da percorrere. E se da qui la strada ci porterà a “due popoli uno stato” vorrà dire che l’abbiamo percorsa seriamente, e che guardandoci allo specchio potremo rivederci uomini.
Intervista a cura di David Terracini