Progettare insieme
di Claudio Millul
David Terracini mi ha chiesto di farvi partecipi delle mie esperienze personali sui rapporti con i cittadini arabi, nell’ambito della mia lunga attività nella facoltà di Architettura, o nella pratica professionale, o anche nelle diverse occasioni della vita quotidiana.
Mi ricordo lo stupore di David quando mi chiese, in una delle sue visite a Haifa, di partecipare ad uno degli incontri del mio studio di progettazione: si trovò di fronte a un dialogo aperto sugli schizzi, appesi alle pareti, dei progetti in cui le proposte degli studenti e le osservazioni dell’ insegnante ( cioè il sottoscritto) si susseguivano in una discussione critica libera e paritetica, non priva di dissensi, di dubbi, o di opposizioni . “Ma dove sono finiti l’autorità del Professore e il religioso timore dello studente?!” Ecco, non sono proprio presenti nel mio DNA di insegnante e, certamente, non nel mio rapporto con gli studenti arabi. Perché è bene dire subito che parlare di “studenti arabi” non significa fare una discriminazione, ma riconoscere e rispettare le condizioni, le esigenze e le qualità specifiche di ogni studente: studente lavoratore, studente sposato con figli piccoli, studente che viene da un kibbutz o da un paese periferico, studente olé chadash (nuovo immigrato) ecc…
Come insegnava il Rabbino Sierra: dopo la battaglia per il diritto all’uguaglianza serve quella non meno importante per il diritto alla diversità.
Gli studenti arabi, sia pure in continuo aumento nell’ambito della facoltà, si distinguono come minoranza con caratteristiche specifiche: innanzitutto la minore padronanza della lingua, la tendenza a interagire fra di loro più che con gli altri studenti, le diverse prospettive culturali (alcuni cittadini, altri provenienti da piccoli villaggi, alcuni mussulmani altri cristiani o drusi….), la maggior parte più giovani dei loro compagni ebrei, non dovendo fare il servizio militare, con marcati dislivelli intellettuali, nonostante che tutti abbiano superato gli esigenti esami di ammissione al Politecnico. Ricordo studenti di una ingenuità infantile disarmante, altri ricchi di padronanza tecnologica impressionante, dotati di capacità grafiche portentose o di una creatività immaginifica stupefacente, a volte intelligenti nelle analisi astratte dei problemi ma privi di ogni possibilità di tradurle in proposte pratiche rilevanti. Ho visto sempre come mio compito primario il rafforzamento della dignità personale di ognuno in base al potenziamento dei suoi vantaggi specifici e al superamento delle sue lacune, senza sconti, ma con impegno comune di raggiungere espressioni convincenti di ipotesi progettuali singolari, coraggiose e produttive.
Generalmente gli studenti arabi preferiscono lavorare in équipe di progettazione omogenee, ma ho avuto anche studenti arabi inseriti in gruppi con compagni ebrei: non si può negare che quasi sempre esista una dimensione di “concorrenza etnica”, che però ho sempre cercato di far confluire in un confronto sportivo da superare con eccellenza creativa, con tesi intellettuali convincenti, con immagini urbane originali e stimolanti.
Una difficoltà ulteriore che gli studenti arabi si trovano ad affrontare è la quasi totale omogeneità del corpo insegnante: 99% ebrei. Anche senza rilevare casi specifici di discriminazione o di preconcetto, questa limitazione li pone in una dimensione di pesante inferiorità: mi sono trovato in accesa discussione con un collega, insegnante con me nello stesso studio che riunisce studenti ed insegnanti di architettura e di progettazione ambientale, sulla valutazione del progetto di una équipe di studenti arabi che aveva lavorato con impegno, profondità e visione lungimirante, conseguendo risultati appaganti e originali ma che, a lui, sembravano artificiosi e dilettanti. In quel caso si scontravano non solo divergenze professionali o didattiche ma, soprattutto, due diversi criteri di valutazione delle specifiche particolarità culturali e psicologiche degli autori del progetto esaminato.
Probabilmente, però, l’ostacolo più grosso che gli studenti arabi devono superare è quello dell’inserimento nel mondo professionale: scarsità del numero degli studi professionali di architetti arabi, pregiudizi di valutazione dei titolari di studi ebrei, difficoltà logistiche, mancanza di collaborazione con i colleghi nell’ufficio. Ho incontrato a distanza di anni non pochi dei miei ex studenti arabi, che sempre mi hanno dimostrato affettuoso apprezzamento e profonda riconoscenza: alcuni impiegati nell’amministrazione pubblica, altri impegnati come attivisti politici nell’ambito professionale, di rado inseriti con posizioni di rilievo in importanti studi di architettura. Per contro non pochi deviati dalla professione di architettura ad attività commerciali più remunerative o occupazioni connesse con le attività economiche familiari, lontane dalla loro formazione accademica. Quasi tutti con frustranti esperienze di “porte chiuse”.
Un caso concreto
Si è unita al nostro studio poco più di un anno fa Lama, giovane architetta laureata nella nostra facoltà, di cui ricordo chiaramente il meraviglioso progetto nel nostro corso di progettazione urbana: una complessa e ingegnosa composizione urbanistica ambientata nelle mura della città vecchia di Gerusalemme, focalizzata sul problema della densità, al limite tra metafora e protesta politica. Dopo la laurea in architettura al Technion ha conseguito il Master in America e, tornata in Israele, ha completato la sua esperienza in un importante studio di Tel Aviv. Oggi è responsabile nel nostro ufficio di un grande progetto di 8,000 abitazioni a Cfar Kara. Le ho chiesto di farci partecipi delle sue difficoltà e soddisfazioni nel corso del curriculum di studi e gli inizi della sua carriera professionale:
“Iniziai gli studi universitari all’età di 19 anni, ed è stato come emigrare in un paese nuovo. Nel villaggio dove sono cresciuta niente sembrava far parte di Israele, ed ora mi ritrovavo in una università israeliana, immersa in una lingua che quasi non avevo mai usato prima. Nella facoltà di architettura tutto è basato sull’interazione diretta tra studenti e insegnanti, dalle presentazioni frontali al lavoro di gruppo: la difficoltà della lingua e la sensazione di estraneità si sovrappongono alla pressione obiettiva degli studi accademici.
Ma a parte il fardello psicologico individuale non poco influivano difficoltà di ordine più generale: il profondo abisso che separa la realtà ideale proposta dai modelli di studio e quella reale del nostro ambiente di vita quotidiano. La vita nel villaggio costruito progressivamente in maniera organica senza alcun progetto, ad alta densità, senza infrastrutture e servizi pubblici sufficienti, si contrappone in tutta la sua precarietà alla visione del modello urbano occidentale e israeliano prospettato nel mondo dello studio, e questo confronto quotidiano è stato molto difficile. Gli studi in facoltà non mi davano strumenti efficaci per analizzare, capire e, forse, anche risolvere le complesse situazioni architettoniche e politiche in mezzo alle quali ero cresciuta. Noi studenti arabi arriviamo all’università del tutto privi del bagaglio di immagini urbane articolate in tessuti di zone di abitazione condominiali costellati da edifici pubblici rappresentativi, di grandi dimensioni ed eleganti composizioni architettoniche.
Come se questo non bastasse ci rodeva di continuo la sensazione pungente che il modello che scoprivamo in facoltà era il tipo di ambiente fisico giusto e civile a cui aspirare, e non il caos del villaggio. Sensazione rafforzata non solo dal fatto che gli studi non prendevano in considerazione le situazioni che ci erano familiari, ma anche dalle reazioni degli insegnanti, a volte entusiasti con nostalgia orientalista di soluzioni problematiche per noi secondarie, ed altre, al contrario, piene di espressioni di superiorità e disprezzo che ci facevano sentire ancora più professionalmente inferiori.
Il fatto che la percentuale di insegnanti arabi fosse così bassa acutizzava il senso di inferiorità. Come se ci fosse sempre di fronte a noi un “altro” più sapiente che rappresenta il prototipo del successo, mentre mancava del tutto qualcuno “come noi” che riuscisse a rafforzare e a giustificare la nostra prospettiva della realtà.
Soddisfazioni? in queste condizioni l’aspirazione era sempre di riuscire a convincere i nostri interlocutori, riuscire a rappresentare un “io” autentico, formulato in termini architettonici attraenti e capaci di riscuotere l’ apprezzamento dei nostri compagni di studi e degli insegnanti. Dovrebbe essere sottinteso, e invece era così problematico!
Nel mondo del lavoro a seguito degli studi la situazione diventa molto diversa: qui non ci sono discussioni critiche su progetti teoretici, c’è lavoro concreto da eseguire. La sensazione di estraneità rispunta soprattutto negli uffici che lavorano su progetti urbani di grandi dimensioni, nell’ambito di città prettamente ebraiche.
La progettazione in cittadine arabe di cui mi occupo attualmente è più urbanistica che architettonica, e questo è un campo difficile, carico di implicazioni politiche e sociali, particolarmente acute in paesi mai progettati razionalmente, con migliaia di abitazioni costruite illegalmente e del tutto prive di infrastrutture adeguate.
In questo contesto, di nuovo, il senso di soddisfazione si manifesta soprattutto nei piccoli successi quotidiani.”
Costruire rapporti di fiducia reciproca
Beit Jan nell’alta Galilea, cittadina drusa immersa nella estesa riserva naturale del monte di Meron; Rame nella valle di Beit hakerem, con popolazione eterogenea di Drusi Cristiani e Mussulmani; Mazraa nella Galilea occidentale, nel conglomerato urbano di Naharia; Baqa el Garbia e Jat cittadine contigue nella zona di Hedera, sulle due sponde del nachal Hedera; Arara e Kfar Kara, cittadine in pieno sviluppo e in posizione strategica lungo l’asse regionale del Wadi Ara. Piani regolatori generali, piani particolareggiati, progetti di volumetria urbanistica. Lungo i 15 anni di attività del nostro ufficio abbiamo percorso un lungo chilometraggio di progettazione in cittadine arabe.
Senza contare la redazione del piano regolatore generale della Regione di Haifa – sotto la direzione degli uffici Zamir e Mazor – che mi ha portato a incontrare e collaborare con decine di sindaci e amministratori locali del settore arabo, che costituisce circa la metà della popolazione della regione.
Col passare degli anni e quanto più si è allargata la prospettiva delle differenze e le peculiarità locali e regionali, abbiamo registrato caratteristiche e mutamenti demografici e sociali che hanno investito tutto il settore della popolazione araba: processi graduali di inurbamento e concentrazione dai villaggi alle cittadine, sensibile riduzione della natalità e delle dimensioni del nucleo familiare, aumento del livello di istruzione e del livello di occupazione, accompagnato da un parallelo mutamento del profilo dei settori di occupazione, dal primario al secondario e anche al terziario e un sensibile aumento della partecipazione femminile alla forza di lavoro. Tutti fenomeni che rispecchiano un progressivo, anche se troppo lento, superamento dei dislivelli economici e sociali tra il settore arabo e quello ebraico.
Contemporaneamente ci siamo trovati ad affrontare problematiche sempre nuove e diverse, a volte cariche di influenze sul percorso progettuale, quando non direttamente legate ai rapporti con la popolazione locale: fenomeni di malavita legati allo sgretolamento della gerarchia patriarcale, e allo sbandamento delle nuove generazioni, impazienti di affermare una nuova posizione nella stratificazione sociale, spesso disorientati sulle possibilità di concretizzarla e troppo facilmente attratti dalle tentazioni delle organizzazioni criminali: ricordo una studentessa di una delle cittadine di cui ci siamo occupati, che aveva scelto come soggetto del suo progetto di laurea il problema della sicurezza personale nel tessuto urbano locale. Due volte ci siamo trovati di fronte ad omicidi nel circolo familiare ristretto di sindaci con cui collaboravamo sui piani urbanistici.
La serrata concorrenza sulla proprietà e sull’uso del suolo, a livello di interessi locali ma anche di scontro di politiche a livello nazionale e regionale: forse il caso più esplicito di questa problematica è stato il piano regolatore di Baqa el Garbia e di Jat, in cui lo sviluppo di una nuova zona industriale sul lato occidentale dell’ autostrada numero 6, su terreni di proprietari privati abitanti delle due cittadine, si scontrava con le preoccupazioni dei kibbutzim adiacenti (legati all’immagine idilliaca del tradizionale ambiente agricolo) ma anche con la politica nazionale di distribuzione delle zone industriali. Tutto questo nonostante l’appoggio dell’amministrazione regionale di Haifa che puntava a equilibrare il suo potenziamento economico a fronte della superiorità crescente delle regioni centrali del paese.
La concorrenza tra lo sviluppo delle cittadine arabe, in particolare Baqa el Garbia e Cfar Kara, e la pressante espansione della nuova città di Harish. Qui i conflitti si riflettevano sia sulla definizione delle specifiche aree di espansione, che sulle preferenze di tracciamento delle infrastrutture principali (accesso diretto all’autostrada, collegamento con la nuova ferrovia e alle relative stazioni) non di rado avallati da specifiche direttive politiche.
In tutte queste lotte la possibile riuscita della nostra funzione di mediazione tra le amministrazioni locali e le istanze di progettazione regionali o governative si fondava su un delicato equilibrio tra lealtà locale e credibilità professionale, sostenuto dal nostro ricco curriculum di esperienza progettuale.
Ma senza dubbio il terreno su cui più è stata messa a dura prova la nostra capacità di equilibrismo è stata la difficoltà di intervento in aree costruite illegalmente, su terreni di proprietà privata non destinati a sviluppo urbano ad alta densità, e frammentate in una miriade di proprietari spesso non aggiornati nelle registrazioni catastali. Si può dire che non ci sia stato progetto in cui questa problematica non si sia presentata come cardinale nella soluzione del progetto. Questo pur tenendo presente il presupposto appoggio delle autorità, interessate a una generale bonifica edilizia, e giocando quasi esclusivamente sulla mediazione a livello personale.
Per affrontare tutti questi impegni la chiave principale è sempre stata la costruzione di saldi rapporti di fiducia reciproca, a livello professionale e personale, tra l’ufficio, gli amministratori locali e i cittadini. Ci siamo sempre sforzati di ascoltare attentamente i nostri interlocutori, sia attraverso pubbliche assemblee di consultazione sia e soprattutto con l’aiuto di ripetuti incontri personali con amministratori e cittadini, nonostante le difficoltà di linguaggio e di comunicazione, facendo forza sui nostri rapporti professionali e personali con le autorità di progettazione e sulla capacità di comprendere e valutare le reciproche esigenze e priorità.
Da parte nostra è stato necessario mettere da parte considerazioni di Ego e di competenza architettonica, ricercando piuttosto sintesi progettuali ed urbanistiche di mediazione tra le immagini ideali dal punto di vista estetico o funzionale e quelle più pratiche e concrete degli abitanti. Senza imposizioni autoritarie, ma elaborate in un dialogo serrato e a volte anche vivace, ma sempre onesto e sincero: anche a costo di risultati che potevano apparire ibridi, ma restauravano, a livello dell’ambiente, immediato il sapore conosciuto di tessuti vernacolari.