Intervista di Emilio Hirsch

Come sapete Torino ha un nuovo Rabbino Capo, Rav Ariel Finzi nato e formatosi a Torino e precedentemente Rabbino Capo a Napoli. Rav Finzi si è gentilmente offerto di concederci questa intervista.

Rav Finzi, ci diamo del tu perché ci conosciamo da più di cinquant’anni. Sei stato il mio madrich negli anni ’70 quando frequentavo il Benè Akiva! È davvero passata tanta acqua sotto i ponti e la comunità di Torino è molto cambiata: siamo complicati ma si sente la voglia di tornare a partecipare in prima persona. Come pensi di incentivare e sostenere questa fiammella? Quali progetti hai in mente per rinnovare, pur mantenendo il rigore della tradizione?

Ci troviamo in un momento storico particolare, che è quello della ripartenza dopo il covid.

In questi due anni ci siamo un po’ chiusi in noi stessi, abituandoci a stare più ore in casa, sia nel lavoro sia per ascoltare lezioni e conferenze che, prima del Covid, erano l’occasione ideale per incontrarsi.

Purtroppo le difficoltà della ripartenza, non sono solo dovute allo sradicamento delle abitudini, ma anche alla stanchezza fisica che, dopo la “fermata” di due anni, sentiamo molto più di prima.

Io credo che in una situazione di questo tipo sia necessario ripartire dai rapporti umani.

Per questo motivo sto incontrando gli iscritti e gli amici, cercando di capire quali sono i motivi per cui alcuni si sono allontanati, quali sono le proposte per gestire la comunità e come ripartire insieme.

Inoltre, suddividendo gli iscritti per fasce di età sto cercando di incentivare l’idea di incontri di tipo “conviviale” come cene in Sukkà o in centro sociale il venerdì sera dopo il Tempio, coinvolgendo non solo gli iscritti che già partecipano alla vita comunitaria ma anche le persone che, per motivi differenti, si sono allontanate.

Con i ragazzi dell’età del GET (dai 19 ai 35 anni) abbiamo avuto uno Shabbaton, e ne stiamo organizzando uno anche per il gruppo dei ragazzi fino ai 18 anni; abbiamo già organizzato due incontri con gli iscritti che vanno dai 35 fino a circa i 60 anni e a breve avremo un incontro con gli over 60. Vorrei, infine riuscire a coinvolgere maggiormente in queste attività gli studenti e le famiglie israeliane che vivono a Torino ed anche i turisti.

Nella mia esperienza napoletana, in accordo con il consiglio, avevamo costruito con successo un percorso analogo, creando un’organizzazione grazie alla quale quasi tutti i venerdì sera cenavamo con 20-30 persone che partecipavano anche alle tefillot di Shabbath e ci permettevano di fare quasi sempre Minian.

Infine, direi che il rigore della tradizione è implicito e non ha un impatto su questo tipo di attività, anzi fino ad ora ci ha soltanto aiutato ad avere maggiore presenza al Tempio.

Concordo che a Torino la crisi più grave sia la drastica riduzione numerica. È certamente un fenomeno complesso, in parte anche causato dalla riduzione delle opportunità che la città fornisce. Come lo interpreti? Come pensi di affrontare il problema?

Il calo demografico è sicuramente un grosso problema, non solo per Torino, ma per tutto l’Ebraismo diasporico e il nostro lavoro ci mette in una situazione paradossale nella quale, “se facciamo bene il nostro lavoro facciamo il male della Comunità”, infatti se riusciamo ad avvicinare i ragazzi all’Ebraismo e alla loro identità ebraica, è molto probabile che almeno una parte di loro, si trasferirà in Israele incrementando, appunto, il problema demografico.

Io ho fatto parte forse di una delle prime generazioni nelle quali questo fenomeno si è palesato; ricordo che, per esempio, della mia classe di terza media (e quelle degli anni subito precedenti), con la fine del liceo, forse il 60% di noi andò a vivere in Israele. Qualcuno è poi tornato, ma altri no e molti di quelli che sono rimasti in Italia erano spesso più lontani dalla Comunità.

Oggi il fenomeno si è fortemente accentuato e, per esempio, nelle classi delle mie figlie a Milano, forse il 90% con la maturità hanno lasciato la città.

Tutto ciò viene accentuato dalla situazione economica torinese che, purtroppo, da un punto di vista lavorativo non offre opportunità a ragazzi neolaureati: molti ragazzi lasciano Torino anche per questo motivo.

In tali condizioni, il lavoro che ci si presenta si concentra su coloro che sono rimasti a Torino e in Italia che, forse in questo momento, sono più lontani dalla comunità.

Nonostante il calo demografico delle piccole comunità, nascono aggregati che guardano all’ebraismo riformato. Cosa si può fare per mantenere l’integrità della comunità che si ispiri all’ebraismo ortodosso? Molto è legato all’identità e all’impossibilità di iscriversi in comunità se non riconosciuti come ebrei secondo l’halakhah. Pensi che la politica restrittiva verso il ghiur (conversione) operata nel recente passato dal rabbinato italiano sia ancora l’unica strada percorribile?

Il tema dell’ebraismo riformato è un tema che richiederebbe un approfondimento specifico che non si può esaurire nelle poche righe di questo testo.

Esprimerò in estrema sintesi la mia posizione riservandomi di approfondire il tema personalmente con tutti coloro i quali ne siano interessati:

Prima di tutto ritengo che gli ebrei italiani, e torinesi in particolare, non si identifichino nell’ebraismo riformato in quanto il loro modello non è assolutamente quello. Di fatto, credo che quest’ultimo sia un “ripiego” nei casi di insuccesso di un processo di conversione.

Credo quindi che la soluzione possa solo essere quella di accedere a un processo di conversione, partendo però dalla nuova realtà e da presupposti diversi: e cioè primariamente, accettare il principio che il processo di conversione è e rimane un processo di tipo religioso, e non ideologico o laico.

È indispensabile quindi farsi carico delle richieste che il tribunale esprimerà, e che riguardano fondamentalmente l’accettazione delle tre Mitzwot principali: lo Shabbat, la Kasherut e la purità familiare.

Rispetto al passato, oggi le modalità del ghiur sono modificate e ogni città ha come riferimento uno dei Tribunali italiani.

Tutto questo garantisce una maggiore uniformità in Italia, perché i tribunali operano con gli stessi parametri e le stesse metodologie. Inoltre, questo processo è conforme a quanto accade nel resto del mondo, per far sì che un una conversione sia accettata ovunque; quindi oggi una conversione italiana permette di iscriversi a qualunque Comunità ebraica del mondo e di fare l’aliyah in quanto è riconosciuta dal rabbinato centrale israeliano.

Hai passato molti anni della tua carriera nel sud Italia. Cosa ti è rimasto di quell’ambiente? Il meridione ebraico appare attraversare un periodo di grande vivacità. Hai passato tanti anni a Napoli e a girare per il suo centro storico si incontra ad ogni passo una chiesa, una cappella, un altarino o un’immagine. Si ha l’impressione di un cattolicesimo pervasivo. Come si trova un rabbino in questo ambiente?

Napoli mi ha lasciato molto sia da un punto di vista dei rapporti umani, sia per quanto riguarda il modo costruttivo di collaborare anche con opinioni diverse e senza mai degenerare nel conflitto.

Napoli come città e, in generale, il sud generano un effetto molto strano nella popolazione: c’è una grande volontà di ricerca di spiritualità e forse anche di religiosità che in qualche modo si ripercuote anche sull’ebraismo. Infatti, molte persone in cerca di una nuova spiritualità non si identificano nel cristianesimo e finiscono per avvicinarsi all’ebraismo in modo forse più tenace che in altre realtà con cui sono venuto a contatto.

Cosa rimane dell’ebraismo dei non cacciati e non convertiti all’inizio del ‘500? Altrimenti, cosa pensi del fenomeno del ritorno di tanti discendenti dei marrani?

Il problema dei marrani non è semplice: se da un lato esistono casi di marrani che sono stati convertiti e che incredibilmente sono tornati, dopo secoli, all’ebraismo ortodosso e casi ai quali dobbiamo ancora dare delle risposte, per contro, altri che vantano origini marrane non sempre accettano di fare propria l’osservanza pratica delle Mitzwoth. Se posso essere sincero, nella mia esperienza nel Sud Italia, non sono riuscito ad incontrare masse di persone seriamente intenzionate ad un ritorno all’ebraismo, forse anche per una ancora forte difficoltà ad uscire allo scoperto.

Per concludere, cosa vorresti e cosa si potrebbe trasporre dall’esperienza di Napoli al nuovo incarico a Torino?

Non vorrei sembrare offensivo verso i torinesi perché io stesso sono torinese ma credo che i napoletani possano insegnarci a sorridere di più, ad essere più positivi e più ottimisti anche in situazioni talvolta estremamente difficili.

Grazie Ariel e ancora congratulazioni! Mi auguro di ritrovarti presto di nuovo su queste pagine.

 

                  rav Ariel Finzi

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