di David Calef
Oltre ad Am Israel Chai (Il popolo Israele vive), uno degli slogan più popolari tra i giovani coloni israeliani è Che il tuo villaggio possa bruciare con cui i mitnakhalim (coloni) si augurano che le fiamme divorino le cittadine palestinesi nei Territori Occupati.
Nella serata di domenica 26 febbraio, quattrocento giovani circa hanno deciso di non lasciare al fato la realizzazione dei loro desideri. Si sono diretti a Huwara, un abitato non lontano da Nablus, e hanno messo a fuoco decine di macchine e case, ferendo una decina di abitanti e uccidendo nel villaggio di Zatara Sameh Aqtash, un palestinese appena tornato da un viaggio dalla Turchia dove si era recato come volontario per aiutare i sopravissuti al terremoto.
I coloni non hanno scelto Huwara a caso. Da lì proveniva il palestinese che qualche ora prima aveva ucciso a sangue freddo i fratelli israeliani Hillel Menachem e Yagel Yaakov Yaniv, abitanti dell’insediamento di Har Bracha, situato pochi chilometri a nord di Huwara. Assassinii che si ritiene siano stati commessi come rappresaglia per l’incursione dell’esercito israeliano a Nablus, conclusasi il 22 febbraio con 11 morti tra cui diversi civili.
In questa sequenza di assassinii e ritorsioni, la vendetta dei coloni si distingue perché era stata annunciata con un manifesto che lascia veramente poco all’immaginazione, visto che specifica anche l’orario d’inizio della spedizione punitiva.
Ma l’esercito israeliano non ha ritenuto valesse la pena impedire la distruzione di uomini e cose e il giorno dopo ha rimesso in libertà i sei coloni che in un primo momento erano stati trattenuti.
A caldo ci si può limitare a constatare che i fatti di Huwara e quelli che li hanno preceduti non sono un’aberrazione ma una conseguenza delle politiche di occupazione degli ultimi cinquantacinque anni. Per ora negli occhi resta l’immagine agghiacciante dei coloni che profanano la preghiera serale di Arvith, mentre guardano le case di Huwara che bruciano.
28 febbraio 2023