di Paola Abbina

 

Non è il derby della capitale e neanche la finale dei mondiali di calcio.
La posta in gioco è molto più alta perché Israele è sull’orlo del baratro, l’abisso della guerra civile.
Senza entrare nel merito della questione sulla riforma giudiziaria vorrei invece soffermarmi sul miracolo che sta accadendo, almeno fino ad ora, proprio durante questa “guerra”. Gli schieramenti tra pro e contro la riforma sono accaniti l’un contro l’altro; eppure, c’è una sorta di linea rossa invisibile, ma innata in ogni israeliano, che non è ancora stata superata.
Ci sono stati scontri, anche violenti, tra le parti in causa e tra i manifestanti e la polizia, ma non sono ancora scaduti nella violenza più brutale, considerata la portata delle manifestazioni sia dal punto di vista numerico che della durata.
E questo è il miracolo, quel tenue filo di decenza e di dignità che tiene ancora in piedi questo Paese, forse perché l’israeliano sa che potrebbe combattere contro il suo vicino di casa o peggio ancora contro il suo compargno d’armi della tzavà, il vero collante genetico della società israeliana.  
È la sua parte più bella e più vera. L’Israele della solidarietà e della fratellanza, nonostante si stia cercando di dare spallate a questo ultimo baluardo.
La marcia iniziata a metà luglio da Tel Aviv e terminata a Gerusalemme il sabato prima della grande votazione ha visto un sempre crescente numero di manifestanti accolti durante il percorso da kibbutz, paesi e villaggetti che offrivano loro bevande fresche, docce e un giaciglio per riposare. Senza nulla in cambio e, soprattutto, senza chiedere niente.
Nelle parole di Shlomo Artzi, cantautore israeliano: “All’improvviso un uomo si alza e vede di essere un popolo e inizia a camminare”.
Una cosa è certa per tutti: la bandiera di Israele da simbolo di nazionalismo è diventato il simbolo della libertà e della democrazia, da qualsiasi parte la si voglia guardare: i manifestanti delle parti opposte che si stringono la mano tra chi va e chi viene, come in una raffigurazione terrena della scala di Giacobbe, o quella storia girata sui social di una manifestante anti-riforma che viene fermata da un altro manifestante a favore,
che le chiede di prestargli la bandiera per andare a protestare a sua volta.
Il colore della democrazia è sempre quello.

E c’è chi ringrazia il premier Nethanyau per aver fatto sì che Israele riscoprisse il suo vero aspetto, il suo valore fondante. Dice Yair Stern, giornalista e personaggio pubblico: “Diciamo un grande grazie, dal profondo del nostro cuore, a Bibi Netanyahu per aver fatto rifiorire la nazione di Israele, per aver ridato quella speranza e quella forza rinnovata con cui siamo nati per combattere e difenderci”.
E poi la ciliegina sulla torta, di una poesia quasi commovente. Nel bel mezzo di una manifestazione un uomo di mezza età si avvicina a uno degli organizzatori e chiede il perchè di tutto questo. Lui si definisce di sinistra ma non concorda con le proteste. L’organizzatore e lui instaurano un lunghissimo dialogo di almeno 20 minuti tra megafoni, fischietti, tamburi cori e slogan. Ma loro non si arrendono e continuano a parlare (anzi a urlare), l’uomo a chiedere e il ragazzo a spiegare punto per punto, concordando che entrambi vogliono un paese democratico. Alla fine, una stretta di mano e una pacca “è stato un piacere parlare con te”.
Ecco, le cariche della polizia e qualche testa calda non hanno capito con chi hanno a che fare. 


foto: Tal Talberman

image_pdfScarica il PDF