di Claudio Vercelli
La tremebonda e anodina dichiarazione pubblica sulla sottoscrizione dell’armistizio con gli Alleati da parte dell’Italia, avvenuta, non senza riluttanza, per la voce del capo del governo Pietro Badoglio, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, avrebbe velocemente prodotto molteplici effetti, destinati a misurarsi anche sul lungo periodo. Di fatto, dal 10 luglio, l’Italia, con lo sbarco anglo-americano in Sicilia, si era già trasformata in un teatro di guerra. La caduta del regime fascista, avvenuta quindici giorni dopo, nel tripudio della popolazione, convinta che da ciò sarebbe derivata la pace, costituiva non solo la conclusione di una dittatura ventennale ma anche l’esplicita ammissione che un intero sistema politico, istituzionale e amministrativo era sul punto di collassare.
I fatti dell’estate del 1943 erano stati preceduti da un succedersi nel tempo di sconfitte militari che avevano reso l’Italia completamente subalterna, anche sul piano politico, alla Germania. La perdita dell’Africa settentrionale, poi del residuo controllo nel Mediterraneo, la definitiva sconfitta in Russia, la compartecipazione oramai esclusivamente subalterna alle operazioni tedesche, così come – più in generale – una mancanza di obiettivi autonomi a fronte del crescente malumore popolare e della ripresa delle opposizioni politiche, ancorché clandestine, avevano decretato il veloce declino di ciò che restava delle illusioni alimentate dal Ventennio fascista. La guerra continuava comunque ad oltranza poiché non c’erano alternative alla resa. L’esplicita intransigenza degli anglo-americani, peraltro, non concedeva scorciatoie o mediazioni di sorta. La silenziosa dissociazione tra le responsabilità di Mussolini e quelle dei gruppi dirigenti dei centri di potere non fascisti, già in atto da tempo, avviò quindi le procedure di un fragoroso e repentino divorzio del quale, a pagare i costi, sarebbe stata chiamata la popolazione italiana.
Dopo il colpo di mano di Vittorio Emanuele III, con la neutralizzazione di Mussolini, all’esercito, in stretto rapporto con la Corona, tra il 25 luglio e l’8 settembre, venne assegnato il ruolo rafforzato di garante dell’ordine interno, come già peraltro era avvenuto, in più di una occasione, nel passato. Di fatto i fucili non erano più rivolti contro un nemico “esterno” bensì verso la stessa popolazione. Mentre la marina e l’aeronautica rimanevano sostanzialmente sullo sfondo del dramma che si stava consumando, alle forze di terra era invece affidato il compito di concorrere attivamente, insieme al sovrano e ai suoi uomini, al transito verso un sistema amministrativo e istituzionale a-fascista. Tuttavia, un tale cambio di scenario si andava consumando in un assoluto vuoto di responsabilità politica, laddove l’ossatura del regime era venuta scomparendo ma ad essa nulla di nuovo poteva sostituirsi. Quanto meno non da subito. Si trattava, nei fatti, di una resa integrale agli Alleati, nella speranza di salvare non l’Italia in sé dalla catastrofe in atto, bensì quei nuclei di potere, a partire dalla stessa Corona, che intendevano sopravvivere al disastro che essi stessi avevano causato.
Il tracollo delle Forze armate e la divisione in due del territorio nazionale furono quindi abbondantemente annunciati dal succedersi repentino, scoordinato e truffaldino di una serie di manovre di vertice, del tutto avulse da una qualche considerazione rispetto al destino della collettività. L’8 settembre del 1943, all’atto dell’ufficializzazione dell’armistizio, firmato riservatamente cinque giorni prima, quel che restava dell’Italia in guerra crollò definitivamente. Con essa si sfasciò anche buona parte del circuito amministrativo ed istituzionale del Paese. La catastrofe, tanto repentina nel suo svolgersi quanto generata dal lungo sommarsi di elementi che stavano congiurando contro la tenuta del Paese, coinvolse quindi la società nel suo insieme. Fu enfatizzata, nei suoi drammatici effetti, dalla grandissima dispersione delle Forze armate, dalla sostanziale inefficienza dei reparti come dalla scarsità cronica di armamenti, di mezzi di trasporto e di comunicazione. Su tutto, però, dominava la mancanza totale di una responsabilità politica, e quindi anche di una volontà militare, che potessero indicare il da farsi dinanzi al violento mutamento di scenario.
Sul territorio peninsulare stazionavano due milioni di fanti, avieri e marinai mentre 650mila erano dislocati nei Balcani e circa 200mila tra la Francia meridionale e la Corsica. Di questo elevato numero di militari, perlopiù posti a presidio permanente delle aree metropolitane e di quelle occupate (quindi non in ruoli di guerra di movimento), la forza operativa, in grado di combattere, non riusciva a superare le dieci divisioni, pari a circa il 3-4% del totale degli incorporati in una qualche formazione armata. Si trattava comunque di reparti molto al di sotto degli standard tedeschi. Il resto era distribuito o relegato nelle innumerevoli funzioni amministrative, burocratiche, logistiche che accompagnavano un esercito elefantiaco, qual era quello italiano, ma privo di risorse e autonomia. Ne derivò che l’Italia non fosse in grado di difendersi, ancor meno dall’oramai ex alleato. Il quale, nell’agosto del 1943, aveva di fatto già silenziosamente provveduto ad occupare la Penisola, dando corso all’«operazione Asse».
Al proclama Badoglio dell’8 settembre, la maggior parte dei soldati italiani stanziati nella nostra penisola sbandò quasi da subito, a fronte dell’immediata defezione degli alti comandi. Fuori dall’Italia si trovavano ben quattro armate. Incorporati tra queste c’erano 674.400 uomini disseminati nei Balcani. Superiori di numero ai tedeschi ma di molto inferiori di mezzi e, soprattutto, difettanti di indicazioni operative, nonché di mediocre preparazione, si trovarono quindi a subire il peso più eclatante della risposta nazista. Ognuno dovette scegliere alla cieca, confidando, laddove possibile, sulla parola dei diretti superiori. Spesso mancò anche quest’ultima. La vicinanza alle truppe tedesche fu per molti decisiva, poiché queste, già preparate alle circostanze, provvidero da subito a disarmare e a concentrare gli italiani. Laddove vi fu resistenza, come a Cefalonia e nell’Egeo, la rappresaglia fu immediata e implacabile.
Nel volgere di poco meno di una settimana 1.006.780 uomini furono fatti prigionieri dall’ex alleato, dei due milioni che risultavano effettivamente incorporati nei diversi reparti delle Forze armate italiane. Ad essere colpita fu soprattutto quella che doveva costituire la forza combattente, come tale attestata nei punti nevralgici. Si calcola che 196mila militari, una volta imprigionati, riuscissero comunque a sfuggire alla deportazione. Della parte restante (ovvero 430mila prigionieri dai Balcani, perlopiù componenti delle II, X e XI armata, 321mila dall’Italia e 58mila dalla Provenza francese, dove stazionava la IV armata), 13.300 di essi persero la vita mentre circa 90mila, tra i quali i membri della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, scelsero di restare a fianco dei tedeschi.
Rimaneva quindi una cospicua massa residua di uomini, ora in mano alla Germania. Di questi, 710mila furono deportati nel Terzo Reich e nella Polonia occupata con lo status di «Italienische Militär-Internierte» (poi conosciuti con l’acronimo di Imi) e 20mila con quello di «prigionieri di guerra», tali poiché catturati in quanto già combattenti contro i tedeschi. Per capirci: lo status di «internato militare» era riconosciuto dal diritto internazionale ma non era incorporato nella Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra. Era quindi valido solo se applicato ai militari e ai civili di uno Stato combattente trattenuti e privati della loro libertà in un paese neutrale. Oppure, se applicato a quei cittadini di uno Stato neutrale rispetto a quello belligerante che, come tali, avessero nel mentre assunto comportamenti ostili. Con la violazione delle norme che regolavano la condotta nei confronti dei prigionieri, si privavano gli italiani delle tutele previste dalle leggi internazionali sottoscritte dagli stessi tedeschi. Ne derivò da subito che gli Imi non fossero tutelati dagli accordi internazionali sui prigionieri di guerra, divenendo così “massa grigia” a disposizione delle autorità germaniche.
Per la popolazione ebraica residente nelle aree occupate dal «camerata germanico», si aprì la voragine della deportazione, peraltro enormemente facilitata sia dagli effetti delle leggi del 1938 sia da un’amministrazione che, una volta ricostruita sotto lo stretto controllo tedesco, si adoperò volenterosamente per fornire le necessarie informazioni affinché si potesse procedere con la cattura e l’imprigionamento.
A questo insieme di numeri e di fatti si possono aggiungere alcune considerazioni di merito. In anni ancora recenti c’è chi ha parlato, riguardo all’8 settembre 1943, come dell’evento che avrebbe decretato la «morte della patria”, espressione coniata, o comunque ripresa, nel 1992 dallo storico e pubblicista Ernesto Galli della Loggia. Il quale identifica nel nodo dell’8 settembre 1943 l’espressione dei tratti peggiori di una presunta «identità nazionale», essa stessa indipendente dal singolo regime politico come tale. Ciò facendo, le responsabilità del fascismo, nel mentre già drammaticamente crollato, ne uscirebbero ridimensionate. Infatti, il repentino cambio di alleanze militari (e di fronte politico), tartufescamente celate sotto dichiarazioni pubbliche claudicanti, tentennanti, indecifrabili poiché incomprensibili; la fuga da Roma e il riparo in terre sicure della Corona; l’abbandono al proprio destino di un’intera collettività nazionale; la débâcle delle classi dirigenti, lo scollamento nella popolazione civile e così via, avrebbero avviato un processo non solo di progressivo mutamento della società italiana ma di aperta manifestazione dello sfaldamento del carattere nazionale.
Il tutto condensato, per Galli della Loggia, nel senso della scomparsa di un’appartenenza collettiva: «il sentimento di una vera e propria “morte della patria” fu, infatti, ciò che oggettivamente provò, in quel biennio terribile [1943-45] e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo emotivo, custodisse […] l’idea di nazione». I fatti dell’8 settembre 1943, lungi dal ridursi ad una sola, ancorché brutale, manifestazione di ordine politico-militare, avrebbero quindi semmai rivelato le fragilità preesistenti nel tessuto sociale, civile ed etico del nostro Paese, incapace di costituire un’unità racchiudibile e riconoscibile, per l’appunto, sotto il nome di «patria». Da ciò anche il ritratto di un’Italia connotata antropologicamente dal conformismo così come dall’individualismo; dalla propensione alla cura del mero interesse personale e di gruppo ristretto insieme al familismo amorale; dal disinteresse verso la cosa pubblica fino all’opportunismo di circostanza; dal gregarismo acritico così come dal culto occasionale verso un capo al quale conferire tutti i poteri, salvo poi revocarglieli repentinamente non appena le sue fortune si siano appannate.
Gli apologeti di una tale lettura, tralasciando del tutto – in piena consapevolezza – la riflessione sulla complessità dell’antifascismo, della Resistenza e della lotta di Liberazione (e quindi ciò che da esse ne è derivato, pressoché fino ai giorni nostri), si soffermano invece sul decadimento dei quadri civili e morali che, fino all’estate del 1943, avrebbero altrimenti garantito – a loro dire – una qualche forma di continuità solidale, patriottica, comunque al di sopra dei medesimi fatti politici e storici, tra la popolazione peninsulare. Non a caso, proprio in un tale tipo di schematica, banalizzante ancorché ammaliante, lettura degli eventi, a fronte dell’enfatizzazione dei sentimenti collettivi di smarrimento si accompagna l’assenza di una riflessione critica sul collasso dello Stato e delle amministrazioni pubbliche, di fatto implose all’atto stesso dell’annuncio pubblico della sottoscrizione dell’armistizio.
Ha osservato al riguardo Alessandro Pizzo: «la storia nazionale mette bene in evidenza, però, non la fine della patria con l’armistizio, ma un processo ben più sottile e duraturo nel tempo, che ha costituito differenti livelli di statualità in virtù dei quali vige “un sistema di coesistenze multiple di scelte politico-istituzionali” [così il costituzionalista Sabino Cassese]. La conservazione di istituti precedenti, e l’instaurazione di nuovi istituti ha reso non soltanto più complessa la natura dello Stato, ma ha anche normalizzato la sua serie incredibile di contraddizioni, tanto istituzionali quanto legislative, tanto economiche quanto sociali, tanto pubbliche quanto private. L’integrazione di “vecchio” e “nuovo” a lungo andare ha “indebolito il tessuto statale”, giungendo, a fine anni Ottanta del secolo scorso, a presentare un conto da pagare e, quindi, ha spinto alla ricerca di vie di fuga. Non la patria della Resistenza, ma una nuova patria; non l’Italia del malcostume, ma l’Italia del buon governo; non la nazione del malaffare, ma la nazione buona. La parola d’ordine nell’agenda politica, d’altro canto, è diventata riforma. Quando Della Loggia celebra il funerale della patria, giustifica a tutti gli effetti i progetti di sua riedificazione su basi differenti». I quali trovano le loro fondamenta non tanto nel “ritorno del fascismo” bensì nella progressiva elisione dei principi universalistici della Costituzione. Il punto da cui partire, per una rinnovata riflessione sul passato nazionale, e quindi sull’8 settembre 1943, rimanda infatti alla problematicità del presente che stiamo vivendo, nel declivio populista che da almeno tre decenni ci accompagna, giorno dopo giorno.