di Rimmon Lavi

Tra tanti, anche un intellettuale religioso di sinistra, Yair Assulin, ha posto in dubbio quale giustificazione possa avere l’esistenza dello Stato d’Israele, per chi non crede in Dio e nella sua promessa territoriale al popolo ebraico.   Da tempo lui richiede, giustamente, la separazione tra lo stato e la religione, per salvare quest’ultima dalla corruzione e dalla degenerazione morale, inevitabili conseguenze del legame con il potere secolare. Infatti, secondo lui, l’ebraismo (che è sopravvissuto per millenni, pur diviso in riti e comunità molto variate, sotto tanti poteri, lingue, culture e regimi differenti) è adesso in pericolo, anche d’unità, proprio per il potere secolare ed economico a cui ha sempre più accesso in Israele – grazie allo sfruttamento reciproco tra i partiti laici e religiosi.

Per spiegare come il sionismo laico abbia sfruttato, dal tempo di Ben Gurion, la religione, non meno che i politici religiosi abbiano sfruttato lo stato d’Israele, Assulin, assieme a molti altri, si riferisce indirettamente al rabbino Hazon Ish, che all’inizio dello Stato Ebraico, comparava il sionismo a un vagone vuoto, che apre la strada ma deve dare il passo al vagone carico dei valori spirituali della tradizione religiosa, la letteratura biblica, talmudica e rabbinica. Infatti, Ben Gurion e i partiti laici e persino socialisti dalla fondazione dello stato finora hanno ballato sulla tradizione e sulle tendenze messianiche più o meno inerenti a parti delle ondate d’immigrazione ebraiche dall’est dell’Europa e dai paesi mussulmani, per assicurarsi l’egemonia alle redini di governo – e anche il sostegno politico ed economico delle ricche comunità occidentali.

Il sionismo di Herzl, Jabotinsky, Weizman etc. era laico, rispettoso sì della tradizione, ma senza sfruttarla o esserne sfruttato, basato com’era sul principio liberale della separazione e autonomia delle autorità.   Certo le proposte, di tipo coloniale, di risolvere il “problema ebraico” in territori altri che la “Terra Santa” furono respinte, non per la promessa divina, ma per il legame millenario al sogno del ritorno, trasmesso anche attraverso la religione, ma soprattutto attraverso la tradizione, il mito e la letteratura, che univa le comunità sparse nel mondo più ancora che i riti così diversi.

Mia madre si ricordava che a 8 anni aveva assistito alla commozione comune del Rabbino Castelnuovo di Alessandria assieme ai miei nonni, socialisti e atei, nel ricevere  nel 1917 la notizia della Dichiarazione Balfour per una casa nazionale per il popolo ebraico in Palestina:   l’attaccamento alla Terra d’Israele era forte sia per un rabbino sia per laici anche dopo generazioni dall’emancipazione degli ebrei e la loro integrazione completa nella cultura e nella nazione italiana,  prima che si potesse neppure immaginare la degradazione nazionalistica e razzista del fascismo e poi la Shoà.

È dunque questa per noi laici la “raison d’etre” dello Stato d’Israele, creato nel 1948 dal movimento sionista dopo 50 anni di azione politica, organizzativa e colonizzatrice, grazie purtroppo anche alla tragedia della Shoà e agli interessi delle varie potenze internazionali. Così è stato per me, quando ho fatto la mia Aliya nel 1966. Adesso, a 75 anni dalla fondazione dello stato, con 80% ebrei, laici, religiosi, ortodossi, reform, israeliani d’origine russa o etiope, anche se non riconosciuti ebrei dal rabbinato, questa può essere per noi tutti la sognata casa nazionale degli ebrei, a condizione che sia veramente democratica anche per il 20% di cittadini arabi, esattamente come avremmo voluto che fosse per noi ebrei nei paesi da cui  siamo d’origine, dalle diverse diaspore.

Negli anni ’50 del secolo scorso la “sinistra” in Israele ha fatto coalizione con i religiosi moderati e anche non ufficialmente con i più ortodossi, evitando così di formulare una costituzione che vincolasse i valori di base dello Stato, come nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, mai codificata in legge.  Dalla vittoria incredibile del 1967 in poi e l’occupazione dei territori miticamente legati al racconto biblico si è sviluppata sempre più la tendenza messianica e fondamentalista, che sfrutta le comunità più ortodosse, la cui impronta demografica cresce esponenzialmente, per mantenere al potere i partiti della destra nazionalista e promuovere leggi autoritarie e discriminatorie. Sono minacciate, per assicurare l’egemonia etnica e ortodossa, la minoranza araba (20% della popolazione), gli LGTB, gli ebrei reform e, ultimamente, anche le donne che si vorrebbero separate non solo nelle scuole e nelle sinagoghe, ma anche negli spazi pubblici. Adesso si aspetta la promulgazione di una legge che esenti per sempre le migliaia di giovani ortodossi delle Yeshivot dall’esercito, pur sovvenzionandoli come se fossero al servizio militare. Negli ultimi tempi anche chiese e monasteri cristiani e moschee sono sotto attacco. E fioriscono nei territori occupati le colonie ufficialmente riconosciute o non ancora, che impediscono ogni trattativa coi palestinesi, privati sempre più di terre agricole o di pascolo o di sviluppo, e attaccati da teppisti “religiosi”.

La minaccia teocratica, autoritaria e suprematista è grave al punto che Aluf Ben, redattore capo del quotidiano liberale Haaretz, propone di rinunciare all’autodefinizione dello stato come “ebraico” (così nella decisione dell’ONU del 1947 e nella Dichiarazione d’Indipendenza, contrariamente all’uso di Herzl: Stato degli ebrei) perché mette in pericolo i valori democratici ed egualitari tra tutti i cittadini. Ma come il termine “stato ebraico”, anche la frase sull’eguaglianza dei diritti di tutti i cittadini “senza differenza di religione, razza e sesso” è stata copiata dal testo dell’ONU e inclusa per farsi belli tra le nazioni, purtroppo senza intenzione di essere applicata in leggi o pratica di governo. Invece il termine “democratico” non appare in nessuna parte della dichiarazione del 1948: esso è stato incluso in leggi costituzionali solo circa venti anni fa con la clausola “ebraico e democratico”, per ridurre il senso etnocentrico di legislazione che trasformava le prassi discriminatorie in legalismo formale.

Purtroppo, non riusciamo ancora a convincere che l’origine della minaccia più grave alla democrazia israeliana, che non è mai stata vera se non per gli ebrei, è nell’occupazione prolungata su milioni di palestinesi. La separazione della religione dallo stato è quindi necessaria anzitutto a noi laici, per ora ancora la maggioranza dei cittadini, che lottiamo assieme ai religiosi moderati per salvare la democrazia.   Solo se riusciremo a unire anche parte degli Haredim più coscienti del pericolo anche per loro, e soprattutto i cittadini arabi a questo movimento popolare, che riesce a perdurare già da 10 mesi con tutta forza, sarebbe possibile evitare la degradazione d’Israele in uno stato “ebraico e razzista”. 

Gerusalemme, Succot 2023

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