Intervista ad Angelica Calò del kibbutz di Sasa


Romana di nascita, Angelica Edna Calò Livne a venti anni ha fatto l’alià nel Kibbutz di Sasa, in alta Galilea.
Educatrice ed attivista per la pace, ha fondato il teatro Beresheet la Shalom, coinvolgendo ragazzi di ogni etnia cultura e religione, per promuovere la conoscenza ed il rispetto reciproco, nella convinzione che l’arte ed il teatro possano essere la forza motrice per coloro che credono nei principi umani fondamentali del bene e desiderano influenzare positivamente dall’interno la società nella quale vivono.

Parlami, se vuoi, della situazione politica di queste ultime settimane in Israele.

Io non parlo di politica, posso dirti soltanto quello che penso e che sento. Iniziano a circolare voci da Gaza. La gente sta cominciando a ribellarsi ad Hamas, sta cominciando ad avere il coraggio di raccontare come Hamas la tiene sotto un giogo sempre più insopportabile. Qualche giorno fa c’è stata una manifestazione a Gaza city di uomini e donne palestinesi, probabilmente hanno avuto il coraggio di protestare pubblicamente perché sapevano che i soldati israeliani li avrebbero protetti. Purtroppo accade spesso che i miliziani di Hamas uccidano i palestinesi che si ribellano.

Ora non girano in divisa ed è molto difficile distinguerli dai civili e a volte, per i soldati israeliani, non è semplice capire se alcuni siano terroristi oppure no.

Secondo te esiste la possibilità di avviare un processo di democratizzazione della società palestinese a Gaza dopo la guerra?

In Israele si stanno tenendo moltissimi incontri tra israeliani e palestinesi che abitano in Giudea e Samaria. Proprio questa mattina (2 febbraio ndr), al fine di creare nuove strategie, si è tenuto un grandissimo evento di attivisti israeliani e palestinesi della West Bank a Givat Haviva che è uno dei centri più importanti dove sono stati già realizzati il dialogo e la coesistenza pacifica. Non è facile, non è affatto facile, prima di tutto perché per i palestinesi è molto pericoloso. Quando si viene a sapere che collaborano con gli israeliani rischiano ogni tipo di ritorsione e addirittura di essere uccisi. Anche per gli ebrei non è facile perché, ovviamente, dopo quello che è accaduto il 7 ottobre, molti non credono più alla possibilità del dialogo. Comunque, non ci abbattiamo e non ci arrendiamo, continuiamo a cercare modi per proseguire su un percorso che possa portare alla pace.

Pensi che si potrà trovare un interlocutore con il quale avviare un processo di pace?

La nostra controparte purtroppo è un gruppo terrorista e noi non possiamo assolutamente trattare con loro. Abbiamo tentato con tutta la buona volontà in passato con Arafat ma la delusione è stata grande. Dopo gli accordi di Oslo che tanto ci avevano fatto sperare, dopo l’utopia e la speranza abbiamo avuto l’Intifada e la guerra del Libano e non possiamo più permetterci di correre simili rischi. Dobbiamo stare all’erta tutto il tempo, ora specialmente al Nord dove si pensa che ci sarà una guerra imminente perché Hezbollah è dotato di missili a lunga gittata che possono colpire fino a 700 km di distanza, vale a dire fino ad Eilat, nel Sud d’Israele. Hezbollah è già pronto e potrebbe provocare qualcosa di terribile.

Certo, noi speriamo in un accordo di pace ma con chi? Se fosse possibile interloquire, in Libano, con il presidente della repubblica libanese sarebbe un’altra cosa. Ma il presidente non ha alcun potere, chi gestisce il potere è Hezbollah sotto l’egida dell’Iran.

La Jihad islamica, Hamas, Hezbollah e gli Houti che dallo Yemen hanno bloccato il mar Rosso, operano tutti sotto l’egida dell’Iran che non appare direttamente ma manda avanti i suoi gregari.

C’è bisogno di tanto, tanto, tanto coraggio. Gli arabi che vivono in Israele si sono resi conto di come sia positiva la democrazia, di come si viva meglio in un sistema che garantisce ai cittadini tutto ciò di cui hanno bisogno come, per esempio, l’assistenza sanitaria e l’istruzione, un sistema come quello israeliano nel quale non esiste apartheid, dove  le indicazioni stradali sono scritte in ebraico, arabo e inglese, dove in ogni ospedale sono curati tutti, dove in qualsiasi posto di lavoro si viene assunti per le competenze e senza alcuna discriminazione. Gli arabi israeliani sono consapevoli della fortuna che hanno a vivere in Israele.

Ora molti arabi della West Bank e molti arabi di Gaza potrebbero essere nostri interlocutori. Certo serve molto molto coraggio, soprattutto per gli arabi perché chi dichiara di volere la democrazia e di voler vivere in pace con Israele rischia di essere perseguitato o addirittura ucciso.

Cosa pensi del ruolo svolto dall’ UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees) a Gaza?

Un’altra cosa molto molto inquietante è ciò di cui si è avuta conferma ultimamente sull’UNRWA.  Sono i rappresentanti dell’ONU a Gaza e avrebbero dovuto comportarsi come operatori che aiutano la popolazione a vivere più serenamente, ad avere un lavoro e a creare un dialogo.  Secondo un articolo del Wall Street Journal  il 10% del loro personale fa parte di Hamas, dodici hanno addirittura partecipato al massacro del 7 ottobre e non solo, tra loro dilaga la corruzione e abitualmente pretendevano mazzette enormi da tutti i soldi che arrivano dal Qatar e dall’Unione Europea.

Purtroppo, i terroristi nelle scuole dell’UNRWA instillano l’odio nei confronti degli ebrei e degli infedeli anche nei bambini piccoli. Un odio viscerale, proprio come al tempo dei nazisti, con libri di testo violentissimi. I bambini dovrebbero crescere ascoltando racconti sui boschi e sulle fate, con i giochi e con la speranza: questo non succede ai bambini di Gaza. Così si rovina l’infanzia dei più piccoli.

È una lotta e l’unica risposta e l’unica speranza che abbiamo è di riuscire a sgominare i terroristi e a cambiare tutto ciò che insegnano ai giovani, di riuscire ad organizzare scuole gestite da personale internazionale diverso da quello dell’UNRWA. Israele non può gestire le scuole arabe perché sarebbe come tornare al controllo su Gaza. Bisogna che se ne occupi un organismo internazionale.

Quali sono i sentimenti degli israeliani in questo periodo?

Israele ha subito un trauma molto profondo e sta tentando di elaborarlo. Il fatto è che ogni giorno, tutti i giorni trasmettono le parole degli ostaggi che sono stati rilasciati e che hanno iniziato a raccontare. Parlano di ciò che stanno subendo le ragazze, di come vengono massacrate, degli abusi sessuali sia sulle ragazze che sui ragazzi. Noi accendiamo la televisione e non ascoltiamo le notizie ma la testimonianza degli ostaggi liberati e poi i racconti delle madri, delle sorelle, delle giovani vedove che parlano dei soldati uccisi a Gaza, di come erano belli, come erano buoni, come erano cari, di quanto soffrano per la loro mancanza… ragazzi di venticinque, ventisei, trent’anni…padri di famiglia… è tutto questo è molto duro… da questo punto di vista non ce la facciamo più…

Da noi in Israele, una volta all’anno, c’è lo Yom Ha-Zikaron, il Giorno dei Caduti, la giornata nella quale ricordiamo tutti coloro che hanno perso la vita in guerra oppure negli attentati terroristici…praticamente da settimane abbiamo tutti i giorni Yom Ha-Zikaron e siamo esausti. Stiamo facendo sforzi immani per tornare a un minimo di normalità: corsi di resilienza, incontri di gruppo alla ricerca di nuovi significati. Prenderà del tempo, tanto, ma  ci riprenderemo anche questa volta. Non abbiamo scelta!

Intervista a cura di Anna Rolli

N.d.R. Le informazioni sul coinvolgimento di personale di UNRWA con Hamas provengono da fonti ufficiali israeliane. Al  momento della messa a punto di questo numero di Ha Keillah, un’investigazione è in corso per determinare in che misura il personale di UNRWA ha legami con Hamas.

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