di Davide Assael
Le manifestazioni a sostegno della Palestina a cui stiamo assistendo dal 7 ottobre nelle piazze delle principali città europee ed americane, riesumano senz’altro un problema irrisolto con il sionismo da parte della sinistra progressista, ma, soprattutto direi, mostrano un’intersezione culturale che è tutta calata nei nostri tempi. Ciò a cui stiamo assistendo è l’incontro, in nome di un generico anti-imperialismo, fra progressismo di sinistra, persino woke, e la vasta galassia degli studi post o de-coloniali, già capaci di ispirare movimenti politici come Black Lives Matter e, in parte, la cancel culture. Mondo in cui gioca una parte non irrilevante la componente araba. Basti dire che Orientalism, di Edward Said, resta ancora oggi un testo di riferimento dell’intera area. Non può passare inosservata la grande contraddizione su cui si fonda questa intersezione, con la parte più impegnata nelle battaglie per il riconoscimento dei diritti dei soggetti oppressi, per motivi razziali, di indirizzo sessuale, o economici (spesso le tre cose assieme, come da nuove tendenze intersezionali), che finisce col supportare movimenti pre-moderni, misogini, omofobi, fondamentalisti, estremisti, di cui Hamas è un degno rappresentante. Strani intrecci, che abbiamo già visto all’opera nello scorso secolo, quando le forme di pensiero più de-istituzionali avevano appoggiato ogni forma di rivolta contro l’occidente imperialista e repressivo. Si ricorderà l’appoggio di Michel Foucault, attivista gay oltre che tra i principali filosofi del secolo scorso, alla rivoluzione khomeinista. Contraddizione, che, però, non può portare ad eludere la domanda sul modo in cui il mondo ebraico debba posizionarsi nei confronti di questi movimenti culturali, che, se da un lato introiettano l’immagine di Israele come punta di lancia dell’imperialismo occidentale (nuova veste dell’antico pregiudizio islamico dell’ebreo usurpatore), dall’altro si collocano all’interno della cornice dei movimenti di emancipazione occidentali, di cui ha beneficiato indubbiamente anche l’ebraismo. Difficile, inoltre, essere indifferenti alle richieste di diritti di popoli storicamente oppressi per un’identità fondata sul dovere di ricordare di essere stati stranieri in terra straniera. Per maestri della statura di Rashi, OrHaChaim, Rabbenu BeChayè il centro stesso dell’etica ebraica. La risposta al dilemma è, forse, già arrivata dagli USA, dove questi confronti sono in campo da tempo. In linea con i tradizionali flussi elettorali, è emerso che il 70% degli ebrei statunitensi appoggia le rivendicazioni della comunità black american. Un supporto anche testimoniato dall’interesse del mondo accademico ebraico, che ha riconosciuto nelle odierne proteste segnate da noti fatti di cronaca sintetizzati nell’immagine simbolo della morte di George Floyd durante un arresto, una comune esperienza della minoranza. Un interesse, purtroppo, quasi mai ricambiato dall’altra sponda, dove l’antisionismo è anche confluito nei più retrivi stereotipi anti-ebraici, con gli ebrei accostati all’immagine dei bianchi capitalisti sfruttatori.
Naturalmente, come si suol dire, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Tra gli studi post e de-coloniali (due approcci diversi seppur nati dalla stessa costola della rivendicazione di identità oppresse), esistono autrici e autori che si sottraggono a questo schema, cercando formule di conciliazione con l’universalismo occidentale, smussato, però, dei suoi aspetti assimilazionisti e imperialisti. Sul piano più generale, resta, però, necessaria un’elaborazione culturale, che, in primo luogo, promuova l’elaborazione di un Islam moderno capace di tradurre gli ideali egualitari post-rivoluzionari in una relazione non gerarchica fra le diverse religioni, non solo appartenenti alla famiglia monoteista. Nella retorica musulmana, non solo araba, pesa ancora molto l’immagine dell’ebreo come dhimmi, sottomesso, propagandata da secoli di Impero ottomano. Concetto, come noto, ambiguo, che tiene insieme l’idea di sottomissione e di protezione riservata alle genti del Libro, ma certamente incompatibile con gli ideali libertari ed egualitari della modernità. In secondo luogo, è necessario porre tutta la galassia dei post-coloniali studies di fronte alle proprie contraddizioni, che rischiano di consegnare i propri giovani alla propaganda fondamentalista e persino terrorista, come dimostrato dagli anni post 11 settembre. Dal canto suo, l’ebraismo deve affidarsi alla sua antica arte del discernimento, restando fedele ad un quadro di emancipazione sociale, rifuggendo dall’alimentare ipotesi tradizionaliste, identitarie e regressive che mai hanno portato bene ai membri della propria comunità.