Intervista di Emilio Hirsch
La comunità oscilla come un pendolo
Il torinese di questo numero è Filippo Levi, recentemente acquisito nella redazione di HK. Filippo, ci conosciamo da oltre mezzo secolo ma da cosa vorresti partire per presentarti ai lettori?
Partirei dal motivo per cui mi sono imbarcato in questo viaggio con la redazione. Durante una riunione del Gruppo di Studi Ebraici mi hanno chiesto di entrare nella redazione per favorire il ricambio e per aiutare a meglio distribuire il carico di lavoro. Siccome sin da quando ero piccolo trovavo Ha Keillah in casa, le sue pagine sono state una presenza costante durante tutta la mia vita. Mi sono dunque reso conto che non potevo esimermi dal rispondere positivamente alla richiesta di aiuto. Sarà certamente un’avventura interessante e per me totalmente nuova: non ho mai fatto parte di una redazione ma spero davvero di poter dare un contributo.
Benvenuto! Ci fa molto piacere. Forse i tuoi lettori vorrebbero sapere qualcosa di più di personale: che cosa ci puoi dire su quello che fai? Sappiamo che sei un ricercatore di fisica sperimentale. Ci racconti qualcosa di più preciso di ciò di cui ti occupi?
Fondamentalmente, mi occupo di misurare il tempo nel modo più preciso possibile. Ho iniziato a dedicarmi a questi argomenti subito dopo la laurea, durante il dottorato, quando ho iniziato a realizzare orologi atomici. Ho iniziato da questa branca della metrologia e non ho più smesso. Ancora oggi mi occupo di orologi atomici che determinano la lunghezza del secondo garantendo una misura standard utile a calibrare tutti gli altri orologi del mondo. Gli orologi che realizziamo in laboratorio sono differenti tra di loro a seconda delle applicazioni cui sono destinati: ci sono quelli primari veri e propri per realizzare la definizione del secondo, quelli prototipali per sviluppi industriali o altri che servono per applicazioni spaziali. Nel mio caso, studiamo nuovi prototipi che poi vengono portati avanti dall’industria, come ad esempio gli orologi che sviluppiamo insieme a Leonardo e utili per le future generazioni del sistema di navigazione GPS. Una parte importante del lavoro che svolgo all’INRIM è legata agli orologi primari. Il funzionamento degli orologi primari è quasi un paradosso perché tutte le volte che si deve fare una misura per caratterizzarne la frequenza in maniera accurata (ossia misurarne le incertezze sistematiche) l’orologio si deve fermare! Mi occupo quindi di generare strumenti di calibrazione che generino la scala di tempo attraverso le misurazioni con gli orologi primari.
Questo lavoro ti ha portato ad avere contatti con colleghi israeliani?
Avendo lavorato per alcuni anni negli Stati Uniti, i miei contatti più frequenti sono con colleghi americani. Tuttavia, ultimamente sono stato coinvolto in una importante collaborazione con la Ben Gurion University di Be’er Sheva. Il progetto è focalizzato sullo sviluppo di un orologio ottico sul modello di quello che abbiamo sviluppato qui a Torino. Anche se siamo abituati a considerare male la ricerca italiana, la realizzazione di orologi atomici è un settore in cui in Italia siamo all’avanguardia a livello mondiale e sicuramente più avanzati rispetto ad Israele. Quindi è una collaborazione di formazione e di trasferimento tecnologico.
Mi ha incuriosito che hai citato un “tech transfer” dall’Italia verso Israele. Secondo te il mondo della ricerca che hai conosciuto in Italia e quello che hai visto in Israele sono molto diversi?
In realtà il processo di “tech transfer” è un po’ particolare, nel senso che sicuramente la ricerca in Israele è molto sviluppata però quella che è l’infrastruttura metrologica che c’è alla base della nostra attività lo è molto meno. La lunghezza del secondo è definita negli istituti metrologici nazionali e sebbene quasi tutti gli Stati ne abbiano uno, solo pochi di questi istituti fanno attività di ricerca, mentre la maggior parte svolge solo attività di taratura commerciale per le industrie. Il centro più importante al mondo è negli Stati Uniti ma in Europa ci sono quattro paesi con istituti metrologici che hanno importanti attività di ricerca sulla misura del tempo: la Germania, l’Inghilterra, la Francia e poi l’Italia con l’INRIM. Esistono altri istituti molto autorevoli in Corea, in Giappone e soprattutto in Cina, ma in Israele l’attività è ancora molto limitata, soprattutto ad applicazioni commerciali. Insomma, in Israele tutto il settore della metrologia è abbastanza arretrato ed essendo rivolto solamente a un aspetto applicativo verso l’industria, manca della ricerca sulla produzione di nuovi orologi atomici. Ecco quindi il motivo di interesse israeliano verso la mia ricerca che ha importanti applicazioni pratiche come ad esempio i navigatori satellitari e la localizzazione geografica tramite GPS, applicazioni di importanza strategica di cui ovviamente Israele spera di superare il ritardo tecnologico con il nostro aiuto.
Come riesci a coniugare i tuoi impegni di ricerca con i tuoi interessi ebraici?
Diciamo che il mio impegno in campo ebraico è stato nel tempo abbastanza intermittente. Ho sperimentato periodi di maggiore impegno “istituzionale” alternati a periodi in cui invece mi sono fermato. Forse tutto questo è accaduto inevitabilmente: l’impegno in campo ebraico è molto stimolante ma è anche faticoso e a volte un po’ frustrante e questo ha influito nel determinare le mie scelte. Non ho mai posto in dubbio la mia identità e la mia partecipazione al mondo ebraico, che ha sempre permeato la mia famiglia e l’educazione dei miei figli. Tuttavia, dopo anni di intensa partecipazione giovanile prima nell’Hashomer Hatzair, con la quale sono stato anche un anno in kibbutz, poi all’interno della FGEI per tutto il periodo dell’università, ho rallentato l’impegno istituzionale quando mi sono sposato e quando i figli hanno iniziato ad andare a scuola, anche se proprio in quegli anni ho costruito con Susanna una famiglia ebraica, cosa che rappresente forse l’impegno ebraicamente più rilevante. Dopo gli anni di impegno giovanile sono stato consigliere della Comunità di Torino e adesso con questo nuovo incarico in Ha Keillah sono davvero contento di tornare a occuparmi di cose più strettamente ebraiche. Nei periodi in cui sono stato più lontano ho potuto ricaricare le energie e raccogliere nuove idee e ora sono pronto a dedicarmi al giornale con entusiasmo.
Il tuo impegno in campo ebraico è comunque sempre stato a 360 gradi, non solo torinese e italiano ma anche israeliano ed internazionale. A tuo avviso l’ebraismo torinese rispetto a quello italiano porta delle caratteristiche di specificità?
Concordo che ci sia una specificità sia in positivo che in negativo. In positivo, la comunità ebraica torinese è sempre stata molto vivace intellettualmente, tanto da sviluppare un pensiero ebraico innovativo ed un approccio originale che sicuramente ha avuto un peso a livello nazionale. D’altra parte, la comunità ebraica torinese ha alcune peculiarità, a mio avviso, spiacevoli. Emergono da alcune caratteristiche tipiche della torinesità quali l’autoreferenzialità, la rigidità, la diffidenza verso l’esterno e la difficoltà a relazionarsi con il cambiamento. Se ne avrò l’opportunità, mi piacerebbe davvero continuare a lavorare per sviluppare una maggiore apertura e spingere ad un maggiore entusiasmo verso le novità.
Questa osservazione mi porta giusto la domanda successiva: nel passato sei stato consigliere della comunità di Torino. Che ricordi porti?
È stata un’esperienza importante ma anche molto difficile. Sono stato eletto nella lista di Comunitattiva nel 2001, la prima volta che quella lista si presentava alle elezioni comunitarie. La nostra lista aveva percepito la necessità di rinnovare la gestione della Comunità, che vedevamo sempre più distaccata dalle esigenze di una parte importante degli iscritti, e che veniva gestita in modo, a nostro avviso, un po’ autoreferenziale dalla maggioranza consiliare di allora. Sono stati anni di discussioni anche aspre tra Comunitattiva e la maggioranza espressa allora dal Gruppo di Studi Ebraici (era presidente Maurizio Piperno Beer) sul modello di comunità, che noi volevamo più inclusiva. Alla fine, mi sono dimesso da consigliere perché nel 2004 sono andato a lavorare negli Stati Uniti. Allora fare il consigliere da remoto non era neanche immaginabile! Quando sono tornato dagli Stati Uniti non mi sono ricandidato come consigliere perché mio papà si era nel frattempo candidato per la presidenza, anche con l’intento di riconciliare tra di loro queste due differenti visioni della comunità e del modo di amministrarla. Negli anni successivi e sino ad ora, la mia impressione è di una comunità che oscilla come un pendolo tra due diverse visioni: una di rinnovamento ed una di conservazione.
Secondo te, nella comunità torinese, ha ancora spazio una declinazione laica dell’identità ebraica?
Sicuramente sì anche se la nostra è una comunità che è andata terribilmente restringendosi numericamente negli ultimi decenni e quindi è diventato più difficile esprimere una propria visione dell’ebraismo. Ora è addirittura difficile fare quasi ogni cosa: le risorse umane sono non solo diminuite ma mancano sempre più le forze dei giovani. Tuttavia, anche se oggi non ho le energie di 15 o 20 anni fa, penso che all’interno della Comunità di Torino ci siano ancora gli spazi per fare cose interessanti. L’importante è cercare di stimolare la partecipazione anche se i numeri di persone mobilitabili è necessariamente ristretto.
C’è ancora interesse per le opinioni di cui HK si fa portavoce da anni?
Sono ottimista e credo che Ha Keillah rappresenti una voce estremamente importante nell’ebraismo italiano. Pur essendo oggi attive numerose testate in campo ebraico, come ad esempio quelle dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Ha Keillah rimane tra i pochissimi giornali intellettualmente indipendenti. È vero che questo giornale è portavoce del Gruppo di Studi ebraici ma possiede anche una forte tradizione di autonomia che gli permette di operare in piena libertà. Inoltre, trovo che il legame con un’associazione di parte garantisca maggiore intraprendenza rispetto a chi deve rendere conto a rappresentanze istituzionali o collettive nelle quali tutti si devono poter riconoscere. Secondo me questo lascia al giornale una preziosa libertà di opinione e di espressione, unica nel suo genere, che va gelosamente preservata.
Concludiamo con i buoni propositi per il futuro? Con quali intenti vorresti incamminarti nel ruolo di redattore di un giornale, che ardirei definire trans-generazionale, come HK?
Penso che per un giornale come Ha Keillah sia fondamentale iniziare a investire soprattutto sui giovani e quindi auspico che si riesca a coinvolgere studenti universitari oppure giovani che abbiano finito gli studi da poco. Anche se in redazione ci sono già delle persone decisamente più giovani di me o di te, credo che ci si possa aprire di più alle nuove generazioni, investendo nel coinvolgimento di chi si riconosce generalmente in una sinistra ebraica, poco importa se laica o religiosa. Dobbiamo impegnarci maggiormente a dare spazio alle tematiche che interessano di più le nuove generazioni che ancora si riconoscono in un orientamento ebraico progressista e di sinistra proprio per mantenere l’impronta distintiva che ha fatto la storia di Ha Keillah.