di David Gianfranco Di Segni

Con il titolo “La metà dimenticata” Tali Dello Strologo, in Ha Keillah dello scorso maggio, ha riportato l’attenzione sul problema della disparità di genere nel mondo ebraico. Nel suo appassionato articolo Dello Strologo, parlando delle piccole comunità della diaspora, così scrive: “Quando ogni venerdì sera la presenza del minian (10 uomini per la preghiera collettiva) è un’incognita […] ogni uomo ebreo è importante. La massa confusa dietro la mehitza [separazione fra uomini e donne] è invece completamente ininfluente. […] che siamo due o quindici non fa alcuna differenza, dietro la ringhiera di separazione è impossibile anche solo contarci”.

Subito dopo l’articolo di Tali Dello Strologo, non a caso posto lì accanto, troviamo “Purim femminile corale”, un testo a più mani scritto da Anna Segre e da sette sue compagne di studio e di preghiera che in occasione dell’ultimo Purim hanno deciso di recitare la Meghillat Ester secondo il rito di Torino: “otto coraggiose donne vestite con le maschere di Purim che occupavano la tevà”. La Meghillà al femminile è ormai una realtà diffusa in diverse comunità d’Italia (e del mondo), come Firenze, Roma e la comunità italiana di Gerusalemme: bene ha fatto quindi Torino a seguire questi esempi.

Anna Segre era intervenuta sul problema della marginalità della donna nel mondo ebraico su Pagine Ebraiche di marzo 2020 in un articolo intitolato “Conta chi realmente è contato”, inserito in un dossier dedicato alle Donne-Parità di genere, una sfida ancora aperta. Significative le parole conclusive dell’articolo di Segre riguardo alla differenza fra uomini e donne, che “non può diventare umiliazione: per esempio, non essere contata in un minian significa non esistere per la comunità, essere irrilevante. La strada più opportuna potrebbe essere, almeno temporaneamente, un minian di sole donne? Può darsi. Non mi pare però che siano stati fatti passi decisi in questa direzione. Se la donna nell’ebraismo conta molto, perché non è contata?”.

Quello che qui segue è una discussione della questione del minian al femminile. Non è mia intenzione fare un discorso apologetico. È innegabile che ci sia una disparità di genere nella prassi tradizionale ebraica (che peraltro non sempre si identifica con la dottrina e la Halakhà, la normativa). Vorrei solo portare alcuni esempi specifici che mostrano come l’assunto di Dello Strologo e Segre secondo cui le donne non contano per il minian non sia sempre vero. Ci sono casi in cui esse contano. Non solo per il caso di un minian di sole donne ma anche di un minian in cui si associano donne e uomini per arrivare al numero di dieci. T. Dello Strologo direbbe che si tratta della classica eccezione che conferma la regola. Ma, a parte che qui le eccezioni sono almeno due, si potrebbe vedere la cosa in modo diverso: se ci sono eccezioni, vuol dire che la regola non è assoluta. Vedremo anche il caso speculare di uomini che non contano per il minian. Capendo perché ci sono queste eccezioni, capiremo anche qual è la logica della regola generale.

Il primo esempio riguarda proprio la lettura della Meghillat Ester, e questa non è una coincidenza perché Purim è effettivamente una festa declinata anche al femminile. A differenza di altri precetti legati a un momento definito del giorno o della settimana, da cui le donne sono generalmente esenti, la lettura della Meghillà la sera e la mattina del 14 (o 15) di Adar è un precetto obbligatorio sia per gli uomini che per le donne. Il motivo è che anche le donne furono a rischio di sterminio a causa del decreto del malvagio Haman (Ester 3:13) ma si salvarono. Inoltre, proprio grazie alle donne (in particolare la regina Ester) il popolo d’Israele beneficiò del miracolo. E quindi tutti, uomini e donne, devono ascoltare la lettura della Meghillà in segno di ringraziamento al Signore per il miracolo avvenuto. La fonte di ciò è nel Talmud Bavli: “Disse Rabbi Rabbi Yehoshua ben Levi: Le donne sono obbligate a leggere la Meghillà perché anch’esse parteciparono al miracolo” (TB, Meghillà 4a).

La Mishnà aggiunge un altro insegnamento, che è fondamentale per la nostra questione del minian: “Tutti sono idonei (kesherìm) per leggere la Meghillà” (Meghillà 2:4), che Rabbi Ovadià da Bertinoro commenta così: “Tutti, a includere le donne”. Rav Bertinoro si basa su un altro trattato del Talmud dove, commentando questa mishnà, si insegna: “Cosa include (la parola ‘tutti’)? Include le donne (TB, Arakhin 3a). Rashì spiega: “(La parola ‘tutti’) viene a includere le donne che hanno l’obbligo di leggere la Meghillà e sono idonee (kesheròt) a leggerla e a far uscire d’obbligo i maschi (zekharìm)”. La Halakhà è stabilita in linea con Rashì nel codice del Maimonide (Hilkhot Meghillà ve-Chanukkà 1:1-2). E così è nello Shulchan Arukh (Orach Chayim 689:1-2, dove sono riportate anche opinioni di minoranza, secondo le quali le donne fanno uscire d’obbligo altre donne ma non gli uomini).

Arriviamo al problema del minian. La lettura della Meghillà, secondo l’opinione codificata, non richiede il minian: si può leggerla anche da soli, incluse le berakhot (benedizioni) iniziali. Ma sulla recitazione della berakhà finale, “ha-rav et rivenu ecc.”, ci sono opinioni diverse. Il Talmud afferma che la recitazione della berakhà finale è solo un’usanza, introdotta per manifestare pubblicamente il miracolo (TB, Meghillà 21a). Essendo una berakhà di natura diversa da quelle iniziali e finalizzata a una manifestazione pubblica, molti posekim (decisori legali) ritengono che ci voglia il minian. Anche il famoso rabbino (e medico) italiano Isacco Lampronti (Ferrara 1679-1756), nella sua opera monumentale Pachad Yitzchak (la prima enciclopedia talmudico-rabbinica), scrive dei diversi usi a Mantova e a Ferrara e anche all’interno della stessa città, chi recitava la berakhà finale solo con minian e chi anche da soli (s.v. Meghillà mevarekhìn acharèa).

La domanda è ora: per coloro che ritengono che sia richiesto il minian, questo può essere composto solo da uomini o anche da uomini e donne che si trovino nella stessa sala? La risposta la fornisce il Ran – Rabbenu Nissim Gerondi (Barcellona, 1290-1376), che scrive: “Come è possibile che (le donne) facciano uscire d’obbligo gli uomini dalla lettura (della Meghillà) e non possano partecipare con loro al minian? Ma certamente esse possono partecipare!” (commento al Rif – Rabbi Yitzchak Alfasi, Meghillà 19b). Questa opinione, dalla logica stringente, è condivisa anche dal Nimmukè Yosef di Rabbi Yosef Chaviva (Barcellona, ca. 1340-1420), allievo del Ran. All’atto pratico, il Ran riporta anche un’opinione contraria, aggiungendo che essa “non è molto chiara, ma è bene tenerne conto ed essere rigorosi”. Anche una logica stringente poco può fare quando la consuetudine è contro la logica…

Facendo un passo avanti, vediamo che nel Bet Yosef, l’opus magnum di Rabbi Yosef Caro (Toledo 1488-Safed 1575), è riportata l’opinione del Ran, ma nello Shulchan Arukh, che del Bet Yosef è la sintesi normativa, non si fa cenno alla possibilità che le donne partecipino al minian insieme agli uomini (forse Rav Caro dà per implicito che si possa, sulla base dell’argomentazione logica del Ran). Ne parla però esplicitamente, seppur anche lui in modo dubitativo, il Rama – Rabbi Moshè Isserles (Cracovia 1530-1572), nelle glosse allo Shulchan Arukh di Rav Caro (Orach Chayim 690:18).

Chi non ha dubbi, arrivando ai giorni nostri, è Rav Ovadia Yosef (Bagdad 1920-Gerusalemme 2013), unanimemente considerato il più importante rabbino sefardita della nostra epoca, che nel Siddur Chazon Ovadia (2a ed. Gerusalemme 5750/1990, p. 768) scrive: “Colui che legge la Meghillà a casa sua per fare uscire d’obbligo le donne recita le benedizioni della Meghillà… ma la berakhà finale ‘ha-rav et rivenu’ non può essere recitata se non in presenza di dieci (persone); se ci sono là dieci donne si recita la berakhà finale” (anche in Yalkut Yosef – Moadim di Rav Yitzchak Yosef, Gerusalemme 5748/1988, pp. 284-289, con le note e le fonti lì citate; Ish Matzliach, annotazioni alla Mishnà Berurà con le opinioni dei Maestri sefarditi, a Orach Chayim 690:18, 3a ed. Benè Berak 5779/2019, in cui si specifica che è ammesso anche un minian parzialmente composto da donne). Per concludere questo primo esempio, nel caso della berakhà finale della Meghillà anche le donne contano, e un minian composto totalmente o parzialmente da donne è ammesso.

Il secondo esempio di partecipazione delle donne al minian concerne Chanukkà, una festa per molti versi affine a Purim. Anche in questo caso si pone la questione del minian, certamente non per l’accensione casalinga (quella principale) che non richiede il minian ma per quella pubblica in sinagoga che invece lo richiede. Anche qui ci si domanda se devono essere tutti uomini o è possibile avere un minian composto da uomini e donne. Questo quesito partì proprio da Torino, nel lontano 5756/1996, da parte di Rav Alberto Somekh, allora rabbino capo della Comunità, che si rivolse all’Istituto di alta formazione rabbinica di Gerusalemme Eretz Hemdah. Questo istituto aveva introdotto da qualche anno un sistema rapido di risposte a domande che provenivano da tutto il mondo via fax (altri tempi: sembra preistoria; oggi si usa l’email), chiamato B’mareh Habazak (“con l’aspetto del lampo”, un calco di Ezechiele 1:14, ma anche un’allusione a Bezek, il nome della compagnia telefonica israeliana). La risposta alla domanda di Rav Somekh fu che sì, all’occorrenza ci si può basare su un minian composto di uomini e donne per l’accensione pubblica in sinagoga (B’mareh Habazak, vol. 4, Gerusalemme 5762, 2001, p. 108; questo responso è poi confluito nel libro di Rav Alberto Moshe Somekh “Sheal na: Domanda! 22 lezioni su Responsa dei Maestri contemporanei”, Belforte, Livorno 2018, pp. 71-75, dove sono riportate anche altre opinioni limitative).

Il motivo per cui per l’accensione pubblica della chanukkià è ammesso un minian composto sia da uomini che da donne è analogo a quello di Purim. Anche le donne beneficiarono del miracolo della salvezza dei “pochi contro i molti”, e alcune figure femminili ebbero parte nella ribellione contro gli ellenisti, come Giuditta e Anna. Perciò le donne, al pari degli uomini, hanno l’obbligo di accendere la chanukkià. In base a questo principio, la donna può far uscire d’obbligo il marito dal precetto di accendere i lumi (p.es. se questi si trova in viaggio per lavoro o qualsiasi altro motivo). Avendo le donne l’obbligo di accendere i lumi e facendo uscire d’obbligo gli altri, esse hanno anche il diritto di contare per il minian nei casi in cui sia necessario, come per l’accensione in sinagoga.

Vediamo ora il caso di quando gli uomini non contano per il minian. È noto che nella diaspora si festeggia un giorno in più per ogni giorno festivo comandato dalla Torà per le feste di Pesach, Shavuot, Sukkot e Shemini Atzeret/Simchat Torà. Per esempio, Shavuot in Israele dura un solo giorno mentre fuori di Israele dura due giorni. È anche noto che le preghiere dei giorni festivi sono diverse da quelle dei giorni feriali: in particolare, nei giorni di festa si recita la preghiera di Musaf. Qual è la regola per una persona che abitualmente vive in Israele e si trova temporaneamente nella diaspora? Nel secondo giorno aggiuntivo non può lavorare, per non differenziarsi dagli altri membri della comunità, ma non può neanche recitare le preghiere tipiche dei giorni festivi (e se è uomo, dovrà anche mettersi i tefillin, seppur non in sinagoga). La domanda è: può comunque contare per il minian nella preghiera di Musaf che egli non può recitare dato che quel giorno è feriale per lui? La risposta è: no, non conta (A. Y. Pfoifer, Sefer Ishè Israel, Gerusalemme 5758/1998, cap. 15:18-19, sulla base delle decisioni di Rav Shelomo Zalman Auerbach; ci sono altre opinioni diverse, mi limito qui a riportare quella di maggiore consenso). Ammettiamo che il rabbino capo di Israele si trovi in visita in una comunità della diaspora a Shavuot: il secondo giorno, almeno per la tefillà di Musaf, egli non conta. Il Gran Rabbino di Israele non conta per minian! Si è mai sentita una cosa del genere? Eppure è così. E altri casi del genere si possono citare.

Concludendo: il contare o meno per il minian non dipende dall’essere uomo o donna ma dall’avere o meno l’obbligo a recitare quella certa preghiera o benedizione. Dato che le donne hanno l’obbligo di ascoltare la Meghillà e accendere i lumi di Chanukkà, hanno anche il diritto di contare per il minian. E dato che gli uomini che vivono abitualmente in Israele non hanno l’obbligo di recitare le preghiere del secondo giorno festivo della diaspora (e anzi, hanno il divieto di recitarle in quanto sarebbero “pronunciate invano”), non possono contare per il minian.

Almeno nei casi qui descritti, la Halakhà non è maschilista, si basa invece su un ragionamento prettamente legale.

Questo articolo si basa su una lezione che ho tenuto al tempio italiano di Rechov Hillel a Gerusalemme nel maggio ’22. Sono onorato di dedicare questo testo alla memoria del giudice Eliyahu Benzimra, nato a Livorno nel 1932, salito in Eretz Israel con la famiglia nel 1939, e mancato nel febbraio 2024 a Gerusalemme, dove ha trascorso la maggior parte della sua vita e svolto la sua carriera professionale. E. Benzimra è stato una colonna portante del tempio italiano, mantenendo in vita le melodie tradizionali livornesi. È stato anche presidente della comunità ebraica italiana negli anni 2012-14. Con determinazione egli ha sostenuto, in un saggio in ebraico ben documentato, la necessità di introdurre alcune modifiche (ammesse dalla Halakhà) nel cerimoniale della sinagoga per permettere una partecipazione maggiore delle donne e, in particolare, per far sì che il bat mitzvà (maggiorità religiosa femminile) diventi il più paritario possibile al bar mitzva (quella maschile), con la lettura della Torà e della haftarà da parte delle ragazze, con la recitazione pubblica di alcune parti della preghiera e con la derashà (discorso). Che il suo ricordo sia di benedizione.

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