di Martino Bonelli e Beatrice Hirsch
Ad inizio settembre, Gad Lerner, spinto dalla voglia di confrontarsi con un pubblico a lui caro, come quello torinese e della comunità ebraica locale, ha presentato il suo ultimo libro “Gaza. Odio e amore per Israele” (Feltrinelli, maggio 2024, collana Scintille) instaurando un acceso dialogo con Gabriele Segre, giovane analista torinese, a sua volta autore di un recente saggio dal titolo: “La cultura della Convivenza. Di cosa parliamo quando parliamo di politica” pubblicato da Bollati Boringhieri.
L’ultimo libro di Lerner racchiude il sentimento di chi, come lui e Segre, si identifica nell’ebraismo e nella cultura ebraica, e non per questo difendono “a spada tratta” il governo israeliano. Il trauma del 7 Ottobre ha generato un radicale cambiamento nel conflitto Israelo-Palestinese, rivelando la fragilità di Israele e riportando un grande senso di insicurezza e allo stesso tempo appartenenza al mondo ebraico. Si è dunque chiamati a schierarsi. Gad Lerner dà voce a pensieri e contraddizioni che tormentano una parte di ebrei al giorno d’oggi, nel loro particolare rapporto con Israele, rimanendo al tempo stesso su posizioni meno radicali e pungenti rispetto al suo interlocutore Gabriele Segre. Entrambi gli autori si trovano a concordare su un fatto particolarmente importante e spesso sottovalutato: Israele non è uno Stato Occidentale. È un paese che segue in tutto le logiche e il contesto del Medio Oriente, e tuttavia è spesso assimilato all’Occidente. Segre sottolinea come questo fattore sia centrale perché nonostante Israele un tempo fosse uno snodo intellettuale fondamentale, oggi si trova incapace di comunicare con l’Occidente il modo in cui vive, bloccato in una sorta di alienazione, senza essere più in grado di raccontarsi e di comunicare con l’Occidente con il linguaggio dell’Occidente.
La forte polarizzazione che si vive nel dibattito pubblico sembra costringere tutti a scegliere, portandoci a identificarci con una parte o con l’altra. Il saggio di Lerner risponde a questa imposizione, indagando e andando a toccare nel profondo i sentimenti di entrambe le parti. Durante il recente dibattito al Polo del ‘900 di Torino, così come in altre interviste, l’autore in questione sottolinea come sia importante evitare l’accusa di antisemitismo ogni volta che si critica Israele. Sebbene, sia da riconoscersi un clima di preoccupante antisemitismo, in Italia e all’estero, non tutte le critiche allo Stato ebraico sono sintomo di antisemitismo. Riferendosi, nello specifico, al caso del rapper Ghali e al suo “stop-genocide” all’ultimo Festival di Sanremo, l’autore ha spesso sottolineato come l’accusa di antisemitismo e l’indignazione della politica, siano state in quel caso, come in altri, mal gestite, e anzi controproducenti, sintomi di una totale mancanza di empatia, di comprensione della complessità e di un fallimento della diplomazia, quando un dialogo sarebbe fondamentale.
Andando al nocciolo della questione Israelo-Palestinese, ma anche di molti altri conflitti in corso, l’autore fa luce su alcuni assiomi del nazionalismo religioso, riflettendo sulla contrapposizione tra universalismo e particolarismo. Richiamando la Bibbia Lerner ci ricorda che il Signore, nel passaggio di Lech lecha, intima ad Abramo di lasciare la sua casa, e poi aggiunge “E in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. In questo “tutte” vi è dunque un senso di redenzione Universale che accoglierà gli oppressi, e non un senso di superiorità nei confronti degli altri popoli, come viene invece spesso interpretato nell’idea di “popolo eletto”. Né nazionalismo, né etnonazionalismo avrebbero a che fare con la missione di Abramo, ma dice Lerner “sono forse una delle peggiori lezioni del trauma della Shoà: la convinzione che solo la forza ci potrà salvare perché siamo soli contro tutti”.
Ma quindi due nazioni etnicamente e religiosamente diverse, sono per questo incompatibili? Secondo Lerner riuscire a superare questo assioma è l’unica via per la pace.
È interessante notare, infine, lo spazio che in questa analisi viene dedicato anche ad un secondo dialogo, avvenuto quarant’anni fa, tra Lerner e Primo Levi, in merito ai rapporti tra Israele e la diaspora. Un dialogo, da molti oggi ignorato o dimenticato, che mostra la ferma presa di posizione di Levi sulle politiche di guerra israeliane. Già un paio d’anni prima Levi, infatti, scrisse un appello pubblicato su la Repubblica nell’82 durante la Guerra del Libano dal titolo dirompente: “Perché Israele si ritiri” sottoscritto da innumerevoli intellettuali che si definirono nelle prime righe dell’appello stesso: democratici ed ebrei (tra le firme si videro anche nomi come Edith Bruck e Natalia Ginzburg). Levi sosteneva che il valore fondamentale dell’ebraismo fosse la tolleranza, da custodire gelosamente. Tolleranza generata proprio dalla natura policentrica che ha caratterizzato il popolo ebraico per secoli. Oggi, se pensiamo al conflitto in corso e alla brutalità delle azioni sui civili, che caratterizzano entrambe le parti, questa tolleranza per uno scambio e un dialogo tra i popoli in lotta sembra del tutto perduta, diventando quasi un’utopia. Eppure, come scritto nella conclusione del libro Gaza: l’utopia è promotrice della storia, perché da essa nascono i cambiamenti e “solo dalle utopie possiamo trarre ispirazione per un futuro migliore”.