di Rimmon Lavi

Sulle orme di un articolo di Nir Hasson in Haaretz del 16/8/2024 su ricerche scientifiche attuali, vi propongo un’allegoria e possibili metafore forse irresponsabili, cercando logica e speranze in una situazione conflittuale che sembra insolubile.

Il fico d’india, originario del Messico, malgrado il nome, fu acclimatato nell’arido Medio Oriente dopo la scoperta dell’America, in cambio del caffè e di altre coltivazioni adesso tipiche del centro America. Un parassita del fico d’India serviva per creare colore rosso intenso naturale, prima dello sviluppo dell’industria chimica.   A tal punto l’acclimatazione riuscì che divenne in breve simbolo tipico della Terra Santa, grazie alla crescita rapida e fitta e alle spine che lo resero funzionale come siepi impenetrabili a difesa di ogni villaggio arabo. Tutt’ora queste siepi rivelano le località storiche dei villaggi scomparsi dopo il 1948, e sono diventate il simbolo della resistenza e persistenza palestinese. Si può individuarne le forme stilizzate anche nella figura di Handaleh, bimbo palestinese profugo, del caricaturista Nagi Elali – parallelo allo Srulik del caricaturista israeliano Dosh, entrambi deceduti. Per altro, iI Sabres, così chiamato in arabo e usato anche in Israele assieme all’ebraico Tzabar, è diventato, nel suo frutto spinoso e ruvido all’esterno, dolce all’interno, simbolo della giovane generazione ebraica cresciuta in Israele prima e dopo la creazione dello stato, così diversa di carattere dall’ebreo diasporico.  

Dunque, forse è sintomatico per le due nazioni sorte dal conflitto, sia i palestinesi, sia gli israeliani, aver adottato come simbolo una pianta intrusa, non endemica né originaria del posto.  Infatti, molti dei palestinesi attuali sono originariamente immigrati da altri paesi arabi durante il mandato britannico e lo sviluppo economico inglese e sionistico. E naturalmente le ondate d’immigrazione ebraica dalle diversissime diaspore si sono mescolate nella società israeliana, riscoprendo, un po’ con manipolazioni artificiali, miti e radici storiche al di là di pratiche religiose, testi affini e poco probabile purezza etnica.

Ma la metafora non finisce lì. Ecco che le siepi di Sabres al Nord del paese erano minacciate da un afide misterioso che le disseccava, forse importato per sbaglio da un agricoltore che sperava di rinnovare la produzione di colori naturali.  Un esperto israeliano di controllo botanico biologico, Tzvi Mandel, ha importato dal Messico una coccinella molto particolare che si nutre soltanto dell’afide che attacca il fico d’india. L’esperimento è riuscito e adesso si cerca di immunizzare i fichi d’india di altre zone del paese, attaccandoli assieme con l’afide e la coccinella, specializzati e dipendenti uno dall’altra. Cioè la protezione ecologica di una specie botanica del paese, anche se non endemica e originaria del posto, si ottiene introducendo contemporaneamente due parassiti “immigrati” dall’estero, uno che attacca il fico d’india, l’altro che si nutre del primo: il conflitto perenne tra di loro preserva così l’equilibrio naturale di un paesaggio che si vuole conservare (se poi questa è la meta dell’ecologia?).   Chi poi sarebbe nella metafora la preda o il predatore?

Un antropologo, Liron Sheni, ha trovato che le motivazioni delle squadre implicate in questa ricerca, erano molto varie, e possono rappresentare i diversi atteggiamenti verso la conservazione ecologica a tutti i costi di paesaggi, piante e animali minacciati dallo sviluppo intenso causato dalla civiltà umana, ma anche dall’evoluzione naturale. Molti si chiedevano perché preservare il paesaggio che ricorda appunto la presenza palestinese di prima della Nakba (cioè la tragedia dell’esodo arabo del 1948). E la metafora del salvare il fico d’India in Terra Santa mette in luce la domanda fondamentale: quale natura e quale realtà politica o culturale deve essere santificata e protetta come “autentica”: quella precedente al 1948, o al sionismo, o all’Islam, o al Cristianesimo, o alla conquista romana etc.?

Ecco, dunque, ricercatori israeliani che proteggono specie ecologiche caratteristiche di questo territorio, anche se importate solo centinaia di anni fa e divenute simboli paralleli delle due nazioni in conflitto sanguinoso tra di loro. Invece il mondo accademico occidentale, in seguito alla spaventosa ritorsione israeliana a Gaza dopo il pogrom micidiale del Hamas del 7/10, individua sempre più Israele come ultimo avamposto del “colonialismo territoriale”, della supremazia “bianca” sugli aborigeni, della paura xenofoba (reciproca?) verso emigranti, intrusi, stranieri. La metafora invece ci fa pensare che la natura e l’evoluzione sono stratificazioni d’intrusioni e di colonizzazioni precedenti. Ma si potrebbe anche trarre la necessità di cooperazione tra parassiti o tra persone di buona volontà (israeliani e palestinesi?) per sperare se non altro in periodi di equilibrio dinamico tra una crisi conflittuale e l’altra.

 Gerusalemme      3/9/2024

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