di Giovanna Grenga
già volontaria dell’Opera Nomadi e
membro del Comitato promotore del Centro Studi Zingari

 

Il volume che mi accingo a recensire, scritto dai ricercatori Luca Bravi e Eva Rizzin,  fa riferimento alla convenzione del 1965, in base alla quale il Ministero della Pubblica Istruzione e l’Ente Morale Opera Nomadi avviavano un processo di scolarizzazione rivolto ad allievi zingari o allievi nomadi, che attualmente vengono denominati minori Rom e Sinti.

La casa editrice Anicia ha editato, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, una serie di importanti saggi sulla questione Rom.
Le prime pubblicazioni erano raccolte nella collana Interface dove si esprimeva l’interesse globale della Commissione europea sulle questioni concernenti gli “Zingari e i Viaggianti d’Europa” (terminologia in uso, in ambito comunitario, alcuni decenni fa), che sarebbe servito da fondamento anche per gli impegni amministrativi e politici.
La collana Interface oggi non esiste più, tuttavia la casa editrice Anicia ha pubblicato nel 2024 il volume intitolato Lacio drom. Storia delle “classi speciali per zingari”, Rom e Sinti a scuola 1965/1982.

 

Si legge nell’introduzione al volume:

Il processo storico di scolarizzazione che è descritto in questo testo intende rendere conto delle differenti fasi che caratterizzarono la scuola per sinti e rom nelle classi speciali; non vuole essere un atto di accusa verso le singole persone che vi si dedicarono con impegno e dedizione, ma un’analisi volta alla contestualizzazione nell’ambito della storia sociale dell’educazione, perché è utile rendere conto di una fase storica che risultò segregante per bambine e bambini proprio dentro alle aule scolastiche, nonostante l’obiettivo di partenza fosse positivo e legato all’inclusione sociale di una minoranza (Bravi, Rizzin, 2024, p. 14).

La Storia delle “classi speciali per zingari” si riferisce ai 17 anni in cui ebbe luogo, sempre nella prospettiva dell’inserimento nelle classi comuni, una modalità di scolarizzazione che, pur di raggiungere l’obiettivo, sfruttava la possibilità di formare classi speciali, allora previste dall’ordinamento, poi abolite con una sostanziale riforma della scuola. Gli autori omettono di ricordare, ma lo facciamo qui volentieri e a proposito, che dopo la Seconda Guerra mondiale fu la testimonianza dei sopravvissuti ai Lager, che raccontavano il destino terribile dei perseguitati razziali, a determinare un nuovo impegno civile rivolto alle comunità ebraiche e romanì. Ricordiamo quindi che a partire dagli anni ’50 nacquero in tutta Europa associazioni che si rivolgevano alle istituzioni educative nazionali per la scolarizzazione di Rom e Sinti, considerata la via fondamentale per l’inclusione. Gli Autori riportano alcune interviste a Sinti che avevano studiato nelle classi “Lacio Drom” (“buon viaggio”, in lingua romanés) frequentate da soli Sinti e Rom. L’esperienza nelle classi Lacio Drom di Prato è raccontata da cinque ex allievi e allieve, due delle quali sono state inserite nelle scuole dei gagi cioè non rom (su richiesta dei maestri delle classi Lacio Drom). I genitori dei bambini gagi, appreso che vi erano due allieve “zingare”, protestarono a tal punto che le due bambine sinte smisero di andare a scuola. Possiamo davvero, quindi, attribuire alle scuole Lacio Drom l’incapacità delle istituzioni scolastiche della Repubblica di accogliere i bambini Rom e Sinti negli gli anni ’50/70?  La nostra esperienza di volontari dell’Opera Nomadi ci induce a sottolineare che gli studi sull’inserimento scolastico di Rom, Sinti, Travellers, Kalò in Europa sono stati molteplici a partire dagli anni Novanta e consentono oggi una prospettiva comparata nel ricostruire la storia della scolarizzazione nei singoli Paesi. La situazione è generalizzabile in quasi tutta l’Europa occidentale: ci sono state tappe progressive a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, provvedimenti che hanno portato ciascun paese d’Europa a scolarizzare i giovani delle comunità (che definiremo estensivamente romanì) con il modello di classi parallele o speciali, di classi ponte, con interventi di sostegno, proposte di integrazione anche nel doposcuola, più tardivamente con mediatori culturali o linguistici.

La scolarizzazione di Rom e Sinti inizia in Italia secondo i dettami costituzionali del diritto allo studio per tutti i cittadini e viene sollecitata dall’attivismo sociale e religioso. Opera era la denominazione tradizionale di vari Istituti di Pubblica Assistenza e Beneficienza (IPAB), in origine di natura privata quanto a fondazione e gestione. Nel 1963 per iniziativa di don Bruno Nicolini nasce l’Opera Nomadi, cui va riconosciuto il merito di aver saputo affiancare il Ministero dell’Istruzione nel primo tentativo di scolarizzazione sistematica di alunni Rom e Sinti nella scuola pubblica italiana.

Gli autori danno una lettura critica di questa esperienza, sospettando un inconsapevole proseguimento di politiche fasciste verso le comunità romanì da parte dei pionieri della loro scolarizzazione. In realtà non mancavano a Bruno Nicolini e ai suoi collaboratori, strumenti di lettura della realtà o di definitiva presa di distanza dalle radici profonde della discriminazione razziale. Chi in Italia si adoperava per l’inclusione di Sinti e Rom (associazioni ed enti del cattolicesimo progressista legate all’approccio offerto dal Concilio Vaticano II) proveniva da una militanza antifascista pagata a caro prezzo nella Resistenza. Induce qualche perplessità l’accusa di essere prosecutori della dottrina discriminatoria a chi si batteva, in nome di un ideale di uguaglianza e promozione sociale a partire dal presidio democratico della scuola, ancorché acerbo in forme dirigiste o paternalistiche oggi smascherate, comunque figlie dei tempi correnti. Il differenzialismo (la classe monoetnica) non era animato da propositi escludenti o diminutori; tendeva ad un’integrazione, pure embrionale, di bambini e giovani fin ad allora esclusi dall’istituzione.  Applicare metriche d’uso corrente ai casi descritti porta verso una lente distorcente: gli anacronismi possono facilitare il rilievo equanime dell’esperienza di scolarità romanì? Il contesto paternalista, certamente ravvisabile, non è figlio di nefande spropositate affermazioni naziste ma più in generale delle politiche di intervento sociale novecentesco, poi del welfare anni Sessanta/Settanta.

Il libro evidenzia come l’obiettivo dell’inclusione sulla base di un intervento individualizzato deve però essere messo in correlazione critica con le teorie applicate su Sinti e Rom nel periodo analizzato; il rischio però è che la ricerca si trasformi in una caccia al (cripto)fascista inconsapevole, poco allineata con l’intento scientifico di colmare una lacuna nella storiografia pedagogica in Italia.

Le scuole Lacio drom hanno avuto lo scopo di offrire a un popolo analfabeta e marginalizzato gli strumenti per una crescita personale e collettiva capace di far emergere, come responsabilità a carico delle istituzioni, le condizioni di vita spesso inaccettabili. L’appartenenza ad una cultura orale, la differenza linguistica, specifiche tradizioni culturali, l’analfabetismo, la diffidenza dei genitori nei confronti delle istituzioni scolastiche di certo sono stati fattori di rilievo nel determinare il successo o meno della scolarizzazione; vi hanno influito pesantemente anche la precarietà abitativa e lavorativa, le politiche segregazioniste verso le comunità residenti. Ma nelle classi Lacio Drom operavano maestre e maestri che in quella scolarizzazione credevano e sfidavano tutto e tutti.

Sarebbe stato interessante riportare la testimonianza del corpo docente che si impegnò in quella esperienza. Per insegnare nelle classi Lacio Drom era necessario aver frequentato un corso biennale per l’abilitazione alle scuole speciali come si esplicita nel volume della collana Interface del 1998, “Un ragazzo zingaro nella mia classe, storia delle classi Lacio Drom” di Giuliana Donzello e Bianca M. Karpati: quest’ultima fu redattrice di Ticno Lil, (Piccolo foglio) un giornalino che raccoglieva il materiale proveniente dalle classi Lacio Drom e veniva spedito alle scuole in forma di ciclostilato. Molte scuole iniziarono a loro volta a stampare giornalini Hinjamo sa prala (Siamo tutti fratelli) a Trento, Baro jag (grande fuoco) a Torino, Notiziario a Udine; nei giornalini scolastici si fanno via via più frequenti i testi in romanes, fiabe filastrocche, storie prodotte dai bambini.

Verosimilmente gli autori pubblicati da Anicia nel 2024 faticano a interpretare e contestualizzare la realtà degli anni ’60: arrivano addirittura ad immaginare si potesse parlare con gli allievi delle classi Lacio Drom in romanes per spiegare i test o quant’altro. Al tempo la lingua del gruppo era tabù. Quando in classe succedeva che uno dei piccoli si lasciasse sfuggire una parola in sinto, hanno sempre raccontano le maestre, subito qualcuno più grande si dimostrava allibito, metteva le due mani davanti alla bocca, strabuzzava gli occhi, faceva intendere che a casa sarebbero state botte. Ci sono voluti anni per penetrare il linguaggio, perché si creasse un po’ di fiducia, perché i glottologi cominciassero a comporre piccoli dizionari. All’inizio nessun insegnante conosceva il romanes. Don Mario Riboldi fu in Italia il primo a tradurre il Vangelo secondo le dizioni di gruppi con i quali operava e poi a farne registrazioni da distribuire nelle scuole. Gli autori tornano sul tema degli strumenti di rilevazione con i quali si tentava di monitorare gli esiti delle classi Lacio Drom. La prima alfabetizzazione di una popolazione analfabeta non è cosa semplice ma anche da altri ambiti proveniva la stessa preoccupazione: cosa fare se i bambini non imparano? Bastava che gli scolari si allontanassero per qualche tempo e al ritorno tutto ciò che era stato dato per acquisito era annullato. I test non verbali che furono usati nelle classi Lacio Drom servivano per cercare di cogliere i nodi del problema del mancato apprendimento, anche se in modo velleitario e inefficace.

Nel citato volume della collana Interface, Giuliana Donzello e Bianca Maria Karpati, insegnanti della scuola elementare e media, sintetizzano le loro riflessioni in merito alla presenza dei bambini zingari nelle scuole, e soluzioni sul piano giuridico-amministrativo e pedagogico-didattico. Preoccupazione costante delle autrici era di non isolare l’alunno zingaro per attuare interventi specifici ma di coinvolgerlo pienamente nelle attività di classe quale membro attivo. Non dunque una didattica “speciale”, ma una scuola “specializzata” capace di offrire ad ogni alunno spazi espressivi e percorsi formativi finalizzati alla crescita personale, proprio come da sempre nelle classi Lacio Drom.

Luca Bravi, Eva Rizzin, Lacio drom Storia delle “classi speciali per zingari” Rom e Sinti a scuola 1965/1982 – ANICIA, Roma 2024 (pp. 148, € 22)

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