di Michele Sarfatti
In ottobre ho compiuto un breve intenso viaggio di comprensione negli ex-lager nazisti di Treblinka, Sobibór, Bełżec e Majdanek, con una prima rapida tappa a Varsavia. I primi tre campi furono sede dell’immenso ebreicidio denominato Aktion Reinhardt (forse un milione e settecentomila uccisi). Eravamo in cinque: Elżbieta Janicka, Elena Pirazzoli, Laura Quercioli Mincer, responsabile di una ricerca universitaria sui monumenti e memoriali in Polonia e Anna Jagiełło, responsabile arte dell’Istituto Polacco di Roma, grazie alla quale il Ministero della cultura di Polonia aveva provveduto agli alberghi e ci aveva messo a disposizione un pulmino.
A Varsavia abbiamo visitato il cimitero ebraico e l’Istituto Storico Ebraico (Żydowski Instytut Historyczny). Nel primo, ci siamo fermati tra l’altro alla tomba del creatore dell’Esperanto Ludwik Lejzer Zamenhof, morto nel 1917, e al monumento per il pedagogo Janusz Korczak, ucciso nel 1942. Quest’ultimo è molto noto in tutto il mondo, e giustamente; ma sul posto sottolineano – sempre giustamente – che non fu l’unico curatore di bambini ebrei polacchi rimasto con loro fino alla morte collettiva. Avevo già visitato nel ZIH l’esposizione dei documenti del ghetto di Varsavia dall’Archivio Ringelblum, un’esposizione gonfia di storia e priva di perline colorate, contenente le voci del ghetto prima della morte per fame, o della rivolta senza lieto fine, o della deportazione a Treblinka.
Anche il cimitero ha costituito un’introduzione al campo di Treblinka, che abbiamo raggiunto il giorno dopo. Nel primo, ciascun defunto ha una lapide; nel secondo, sulle pietre sono scritti solo i nomi di località. Mentre camminavamo in questa area, ci è stato fatto notare che, per terra, non tutto ciò che appariva pietrisco lo era; alcune cose dure dovevano essere frantumi di ossa bruciate. E, nel vecchio punto di raccolta delle bottiglie, il lavorio delle talpe e l’azione della pioggia avevano fatto ri-emergere pezzi di vetro dell’epoca. No, le morti e le vite prima delle morti non se ne vanno da quell’area. A pochissima distanza da questa, si stagliano crocefissi, molto alti come usa costà. E la limitrofa area del campo di lavoro punitivo è dotata di un itinerario denominato ‘via crucis’.
Il giorno dopo siamo andati al campo di Sobibór. Anche lì c’è una ferrovia. C’erano molte linee ferrate in Polonia, con molte stazioni, anche piccole; servivano per gli spostamenti lunghi, ma anche per andare al mercato zonale. A Sobibór tutto era tremendamente vicino: binari per treni passeggeri o merci, e campo. E nel campo, dopo una certa data, i corpi degli uccisi vennero tutti bruciati. Dai finestrini dei vagoni, si vedevano fumo e fiamme alzarsi sopra le chiome degli alberi? Comunque, le chiome delle donne venivano tagliate prima dell’ultimo atto, e mandate in un centro di raccolta. Immagino, via treno.
Come già nel brutto museo di Treblinka, in quello più bello di Sobibór colpisce l’esposizione di chiavi di casa. Essendo oggetti metallici voluminosi, sono – se posso dire – sopravvissute meglio, e sono rimaste a testimoniare i ritorni desiderati e le cose serbate con cura. Sì, sono testimonianze e sono anche testimoni.
Bełżec fa ancora più effetto. L’area destinata a memoriale è più raccolta rispetto ai due precedenti, inoltre non è un segmento di pianura orizzontale, bensì un pendio, che degrada (strana parola) per l’appunto verso l’ingresso. Verso la strada di transito. E verso la ferrovia. Anch’essa di transito. E da questa, per via della pendenza, proprio non si poteva non vedere ciò che ogni tanto si levava sopra gli alberi. In preparazione a questo viaggio, avevo riletto una relazione che un gesuita tedesco aveva inviato il 14 dicembre 1942 al segretario di Pio XII e nella quale menzionava (traduco dal tedesco) “Rawa Ruska con il suo altoforno (Hochofen) delle SS in cui vengono uccise fino a 6000 persone al giorno, soprattutto polacchi ed ebrei”. Il documento è stato reso noto nel 2023 dall’archivista vaticano Giovanni Coco, ed è ormai alquanto noto (io ne parlo in un articolo della rivista storica “Contemporanea” del gennaio-marzo 2024). Rawa Ruska (oggi in Ucraina) è una cittadina pochi chilometri a sud di Bełżec, ed entrambe sono sulla linea ferroviaria che connette Leopoli con Lublino o con Brest-Litowsk. Secondo me, la fonte (clandestina) dell’informazione, con Rawa Ruska intendeva Bełżec. Ma perché ha scritto “altoforno”? Lì non c’erano forni crematori e le relative alte ciminiere, potenziali (chi può sapere?) suggestioni per quel termine. Ebbene, lì, osservando il luogo e le sue caratteristiche, mi è venuto in mente che anche il termine altoforno poteva essere un’approssimazione, come lo era il nome della località, ossia indicare ciò che veniva arguito da un finestrino di vagone. So bene che questo tentativo di spiegazione potrebbe essere erroneo; per l’accertamento storico occorrerà studiare la cronologia degli abbruciamenti e quella del viaggio in clandestinità della notizia. Comunque, il dato storicamente rilevante è l’arrivo di questa in Vaticano e la sua conservazione tra le carte del suo massimo esponente.
Majdanek svolse numerose funzioni: di sterminio, di detenzione, anche di sfollamento (sic). Conserva tuttora numerose baracche, e quindi esiste anche come ‘luogo attrezzato’, non solo come area di vite insepolte. Lì abbiamo incrociato scolaresche in visita. Però, dopo i vuoti assoluti dei tre siti precedenti, questo posto così ampio e diversificato mi ha un po’ disorientato. Anche se è stata questa multifunzionalità a far sì che a Majdanek i locali destinati a camere a gas siano rimasti in piedi e siano oggi vedibili. Ma, mi chiedo, è così importante vedere una camera a gas? E però, mi chiedo ancora, cosa sarebbe il dibattito pubblico se non ne fosse rimasta nessuna? Sì, si visita per trovare nuove domande; perché per trovare risposte basta studiare (o googlare) da casa. Forse per via di questo suo livello di conservazione, Majdanek è diventato ben presto un Museo, e ha poi preso sotto di sé i siti di Sobibór e Bełżec. Tutti e tre sono meglio curati che a Treblinka. E in tutti e tre siamo stati accolti con interesse e scientificità, mentre la direzione di Treblinka ci ha precluso per molte ore la visita all’esposizione, che pure era concordata e confermata.
L’Aktion Reinhardt era dedicata agli ebrei. Ma nei suoi siti furono uccisi anche numeri minori di rom, talora durante i lavori per la realizzazione dei campi.
In un pannello del museo di Sobibór, a proposito delle rare fughe dal campo, è scritto: “The escapees were helped by local Polish and Ukranian residents who risked their own lives to aid them. However, some survivor accounts mentions incidents of violence, even murder committed by partisans and local residents”. La seconda frase tiene conto dei risultati della nuova storiografia polacca non negazionista, che sta ricostruendo l’ultima fase della persecuzione, che colpì, anche per mano di polacchi non ebrei, i fuggiaschi dai ghetti e (pochi) dai campi. Questa storiografia è stata combattuta con asprezza dalla precedente maggioranza di governo, ma è stata sostenuta da altre aree della società, e dall’intero ambito della ricerca internazionale. Varie volte Elżbieta Janicka ha chiesto all’autista del pulmino di fare una piccola deviazione, per raggiungere lapidi o vere tombe situate nei luoghi dell’assassinio di ebrei isolati. Con molta perseveranza, inoltre, ha chiesto alla guida di tutti i musei perché non vi erano pannelli esplicativi dell’antisemitismo, di là delle veloci menzioni del fatto che i nazisti lo erano. (va da sé che, se lo si spiega, non lo confina a una specifica nazionalità e a una specifica concretizzazione politica)
Il viaggio è durato cinque giorni; i suoi effetti avranno una durata assai più lunga. Qui ne ho raccontato solo una piccola manciata. Ma debbo dire un’ultima cosa: tutti i campi cercano di ricostruire i nomi di chi è stato ucciso lì. Ad esempio, a Treblinka sono arrivati a 106.959 nomi (marzo 2024), ossia hanno superato il dieci per cento del totale. Chi sa o sospetta dei nomi, si metta in contatto e li aiuti.