a cura di Anna Rolli
Sharon Nizza, nata a Milano nel 1983, vive in Israele dal 2002. È una giornalista freelance e producer TV per diverse testate internazionali per cui segue la situazione in MO. Nel 2024 ha pubblicato: 7 OTTOBRE 2023. ISRAELE, IL GIORNO PIÙ LUNGO edito da Repubblica.
Vuoi parlarci delle conseguenze del 7 ottobre in Israele?
Se prima del 7 ottobre dicevo sempre che la società israeliana vive nel post-trauma, ora posso dire che non siamo ancora nella fase post, il trauma è ancora vivo e presente. Ogni giorno emergono nuove storie e testimonianze di quella giornata atroce. Il trauma del 7 ottobre continua a pervadere tutta la società israeliana. Oggi ho incontrato a Rahat un amico beduino, uno psicoterapeuta. Mi ha raccontato di un paziente, un ragazzo che il 7 ottobre era andato al festival musicale di nascosto dalla famiglia perché tra loro è un tabù partecipare a feste del genere, e adesso non può raccontare a nessuno quanto accaduto se non a lui che è il suo terapeuta. Israele vive ancora il trauma del massacro, è un piccolo paese e non c’è una sola famiglia che non conosca qualcuno che è stato ucciso, poi c’è il dolore per la guerra in corso e per i 101 ostaggi ancora trattenuti a Gaza, tra loro anche quattro beduini, e la sensazione di abbandono da parte della comunità internazionale. Ci sono state numerose vittime tra i beduini, uccise sia in quanto “traditori” perché sono israeliani, sia in quanto soccorritori perché, abitando prevalentemente nelle aree invase, hanno partecipato alle operazioni di salvataggio, sia in quanto soldati perché buona parte di loro si arruolano volontariamente nell’esercito.
Le donne israeliane sono rimaste sole. Non hanno avuto la solidarietà delle femministe del mondo. Cosa è successo?
Il #metoo è nato sull’idea che bisognasse credere alla parola della donna. Consapevole della difficoltà di parlare delle violenze subite si rivolgeva alla donna dicendo: “Io credo alla tua parola”. Con le israeliane, invece, no! Sono state messe di nuovo sul banco degli imputati. È quello che più mi scandalizza e che frantuma tutto ciò per cui #metoo si è battuto negli ultimi 10 anni. Purtroppo quasi tutte le vittime degli abusi sessuali sono state uccise e non hanno più voce. Sono le loro autopsie, le parole dei testimoni oculari, le confessioni dei perpetratori a parlare per loro, ma improvvisamente per il movimento femminista globale non è più sufficiente: “Ti credo. A meno che tu non sia un’ebrea!”
Gli ebrei e gli israeliani si sentono isolati?
Le tematiche sollevate da questa ondata di antisemitismo non sono affatto nuove. Le avevo individuate e vissute sulla mia pelle durante la Seconda Intifada, quando ero una liceale milanese. Quello che è nuovo e deleterio è il metodo: nell’epoca della comunicazione istantanea, ciò che conta è arrivare subito alla notizia a scapito dell’accuratezza e nonostante il rischio di far circolare fake news. Gli algoritmi dei social media sono pensati per creare polarizzazione e casse di risonanza automatiche, propongono sempre posizioni che confermano quelle dell’utente e la gente vive nell’illusione che il proprio pensiero (o pregiudizio) sia quello giusto. Stiamo perdendo la capacità di concentrarci, i messaggi sono sempre sintetici e dicotomici: slogan, faccine, icone per presentare argomenti che richiederebbero ore di studio. Oggi l’icona dell’anguria, diventata il simbolo della causa palestinese, basta ad esprimere sui social un mondo intero che ha innumerevoli nuance.
Quali sono le prospettive della guerra al momento?
L’esercito sta combattendo a Nord e a Sud ma in questi ultimi giorni (metà novembre ndr) molti soldati stanno rientrando dal Libano. Il fronte Nord si è aperto l’8 ottobre 2023 quando Hezbollah ha iniziato a bombardare Israele. Il governo ha ordinato l’evacuazione della popolazione – non era mai successo prima – per il rischio concreto che Hezbollah invadesse via terra per abbattersi sui civili come era avvenuto al Sud. A settembre ci siamo posti un nuovo obiettivo: far tornare a casa gli oltre 70.000 sfollati e sono iniziate le operazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi due mesi, smantellamento delle infrastrutture militari di Hezbollah e della loro roccaforte a Beirut, distruzione della imponente rete di tunnel a ridosso del confine e di cui sapevamo già dal 2018 quando sono stati scoperti i tunnel che penetravano nelle cittadine israeliane come Metulla. Ora che sappiamo chi governerà la Casa Bianca, credo che si entrerà in una fase politica e diplomatica differente. Trump l’ha detto chiaramente, vuole mettere fine alla guerra. Per farlo può contare sul rapporto del suo entourage con l’Arabia Saudita per convincerla ad impegnarsi nella ricostruzione di Gaza, al posto del Qatar. I Sauditi non hanno alcun desiderio di entrare a Gaza e di impelagarsi con Hamas, branca palestinese dei Fratelli musulmani che da loro sono fuorilegge, però il team di Trump è impegnato sin dalla precedente amministrazione nella normalizzazione con i Sauditi. Siamo in un momento critico, di grandi possibilità per gli sviluppi nell’area.
Ho letto il tuo libro: 7 OTTOBRE e l’ho trovato molto lucido. Vuoi parlarcene?
Nel mio libro ho raccontato gran parte delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. Non ho scritto niente di più di ciò che ho visto o sentito da fonti dirette, integrando le testimonianze con i video, per essere inattaccabile perché c’è già un gran numero di persone che tenta di negare o sminuire quanto accaduto quel giorno.
Ho sollevato alcune tematiche che credo non abbiano ricevuto sufficiente copertura, innanzitutto quella della seconda ondata di invasori. Alle 6:30 del mattino del 7 ottobre sono entrate le forze Nukhba in maniera premeditata e organizzata. Verso le 8, in pieno massacro, Mohammad Deif, il comandante militare di Hamas, ha pronunciato un discorso in cui annunciava l’inizio dell’operazione “Alluvione di Al Aqsa” e invitava chiunque a prendere un’ascia, un coltello, un camion e a sfondare il confine. Sono entrati circa 2200 civili, principalmente per saccheggiare ma anche loro hanno ucciso e rapito ostaggi, e a Gaza, durante vere parate dell’orrore, i rapiti sono stati brutalmente aggrediti da altri civili esultanti, come si vede in numerosissimi filmati. Gli assalitori sono arrivati con mappe molto dettagliate dei kibbutz, migliaia di gazawi lavoravano in Israele e con ogni probabilità hanno passato a Hamas le informazioni necessarie, non sappiamo se perché complici o ricattati. Sono tematiche fondamentali per capire come mai la fiducia reciproca è ai minimi storici anche tra le comunità pacifiste che vivevano a ridosso della Striscia di Gaza e oggi hanno grande difficoltà a credere in un futuro di coesistenza.
Dopo il 7 ottobre la mia paura più grande era che scoppiasse anche il fronte interno con scontri violenti nelle città miste, come era successo nel maggio 2021. E invece non è accaduto. Gli arabi sono più del 20% della popolazione israeliana e nonostante questa guerra atroce, nonostante il dolore per gli amici e i parenti a Gaza, probabilmente capiscono cosa perderebbero se Israele fosse sconfitta da Hamas. Sono stati anche loro vittime delle atrocità compiute da Hamas e credo che l’elaborazione di un lutto congiunto abbia creato unione all’interno della società israeliana.
L’UNRWA, oltre a essere accusata di aver partecipato direttamente al massacro del 7 ottobre con alcuni suoi uomini, è accusata di utilizzare nelle sue scuole una didattica e libri che incitano all’odio. Quale è esattamente il suo ruolo?
Cosa si studia nei libri delle scuole dell’UNRWA, sovvenzionate dall’Onu, rimane una questione critica che la comunità internazionale dovrebbe affrontare.
Un altro problema è la definizione di rifugiato. Nell’UNHCR lo status di rifugiato non è ereditario e il mandato è quello di ricollocare i profughi nel paese di immigrazione: invece l’UNRWA trasmette lo status di rifugiato attraverso le generazioni, nel ’49 aveva in carico circa 750,000 profughi palestinesi e oggi ne ha quasi 6 milioni! Mia madre è stata cacciata da Alessandria d’Egitto nel ’48 e ha perso tutto e nessuno le ha mai offerto alcun risarcimento, così come è stato per quasi 1 milione di ebrei cacciati o fuggiti dai Paesi arabi. La perpetuazione dello stato di profugo, avallata dalla comunità internazionale, è chiaramente uno degli ostacoli alla soluzione del conflitto.
Cosa sanno gli Israeliani di quanto succede a Gaza o in Cisgiordania?
Come per ogni contesto, approfondire il proprio livello di informazione dipende molto dalla volontà. In Israele non mancano giornali, influencer e associazioni che si occupano di monitorare e raccontare quanto accade nei Territori e, peraltro, queste sono le fonti citate dalla stampa internazionale.
Si mette in dubbio la narrazione palestinese su quanto accade a Gaza. Come si potrebbe garantire una narrazione più veritiera in assenza di corrispondenti indipendenti?
L’IDF non permette alla stampa straniera di entrare autonomamente per ovvie ragioni di sicurezza e ciò irrita i giornalisti abituati a muoversi nei teatri di guerra. Si tratta di un autogol da parte di Israele perché la presenza di giornalisti indipendenti a Gaza avrebbe potuto aiutare nella verifica dei fatti, come dimostrato dal recente servizio di Ohad Hemo, corrispondente per le questioni palestinesi di Channel 12, che ha riportato la vox populi, mentre Al Jazeera è palesemente connivente con Hamas e non riporta mai voci di dissenso da Gaza. Sono in contatto con una rete di dissidenti anti Hamas che avevano fondato nel 2019 il movimento Bidna naish “vogliamo vivere” e da loro ricevo molte informazioni che difficilmente raggiungono la stampa mainstream. Seguo anche diversi influencer gazawi che raccontano la loro quotidianità e dai quali ricevo informazioni sulla routine in tempo di guerra, su quali beni arrivino a Gaza e su quali aree siano colpite dai bombardamenti.
Il tuo libro è stato sempre presentato in luoghi “amici”? Ti è capitato di confrontarsi in ambienti ostili?
Come scrivo nell’epilogo, il mio libro è uscito in concomitanza – sempre per Repubblica – con quello del collega Sami Al-Ajrami che scriveva da Gaza. Conosco Sami da diversi anni e, quando è venuto in Italia in tournée, ho tentato di organizzare una presentazione congiunta ma purtroppo non è stato possibile, diciamo che non c’era la volontà…. Ho organizzato autonomamente le mie presentazioni in contesti “neutrali” a Milano e Roma, e sono andata in qualsiasi luogo che mi abbia invitata, fino a Cosenza. Vorrei tornare per un nuovo tour nei licei e nelle università, perché ci terrei moltissimo a confrontarmi con gli studenti. Se HaKeillah vorrà organizzare un evento in contesti difficili, disposti allo scambio di idee e al dibattito, io sono a disposizione.
Cosa pensi delle associazioni di donne e uomini israeliani e palestinesi che cercano di dialogare e capire le sofferenze reciproche?
Mi sono trasferita in Israele nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada per capire e vedere con i miei occhi, da allora non ho mai smesso di dialogare con tutti: destra, sinistra, haredim, nazionalisti, antisionisti, musulmani, cristiani, drusi, circassi…non si finisce mai, perché la realtà è molto complessa e variegata. Certo, ben venga la volontà di capire e tentare di trovare punti di convergenza. Quantomeno per dare corpo al motto einaudiano “conoscere per deliberare”.
Come immagini si possa in futuro uscire da questa terribile spirale di odio?
Ho scritto questo libro perché credo sia fondamentale essere informati sull’efferatezza e la criminalità dell’attacco del 7 ottobre. Quel giorno è iniziata la guerra più sanguinosa di questo conflitto pluridecennale, tuttora in corso e con conseguenze devastanti per la popolazione palestinese che di certo non nego né sminuisco. Bisogna capire il terrore della gente nascosta nei rifugi, per ore e ore incollata alla maniglia della porta blindata per impedire ai terroristi di entrare, il terrore che un attacco simile possa ripetersi al Nord.
È iniziata una nuova era e molti capiranno che non è sufficiente ripetere il mantra “due popoli due stati” ma che bisogna ragionare su nuove soluzioni praticabili. Ne accenno nell’epilogo del libro.
Nel dolore che ci accompagna quotidianamente, io conservo la speranza che traggo dallo studio della storia: dopo 4 anni dalla guerra del kippur – che fino al 7.10.23 è stata considerata la guerra più disastrosa per noi e per l’Egitto – il presidente egiziano Sadat visitò Israele e pronunciò un discorso storico alla Knesset, avviando il processo di pace che ha retto fino a oggi. Anche gli accordi di Abramo reggono e nessuno Stato musulmano ha interrotto le relazioni diplomatiche con Israele, nonostante le immagini tragiche da Gaza e dal Libano. È una realtà che dice molto di più delle dichiarazioni di questo o quel leader e ci dà indicazioni sulla complessità delle alleanze mediorientali. Nessuno avrebbe mai ipotizzato la visita di Sadat a Gerusalemme, ci vorrà del tempo, ma forse nei prossimi anni anche noi vedremo cambiamenti che non avremmo mai potuto immaginare.