di Alessandro Treves

 

Fra Natale e Capodanno, ovvero durante Chanukkah, ho passato una giornata nella parte sud del governatorato di Hebron, dove le cittadine, fra cui Yatta, sono zona A (o B), cioè amministrate dall’Autorità Palestinese, mentre il territorio tutto intorno, pietroso e scarsamente coltivabile, è zona C, sotto pieno controllo israeliano. I palestinesi che si ostinano a tenere le loro pecore e qualche ulivo in ciò che rimane dei villaggi della zona C sono gradualmente spinti dalla violenza dei coloni ad abbandonare le loro terre e rifugiarsi in zona A. A poco serve la solidarietà di ONG come B’Tselem, movimenti come Ta’ayush e gruppi di giovani come Free Jerusalem, con cui è attiva mia figlia, che in sostanza possono solo cercare di essere presenti e filmare quanto accade. Chi volesse approfondire può cercare in rete notizie su queste associazioni e su attivisti come David Dean Shulman, Amiel Vardi o Hagai El-Ad.

“Che cosa ci hai fatto? E che colpa avevo commesso io contro di te?” non si capacita Abimelech del comportamento di Abramo, che gli ha mentito dicendo che Sara è sua sorella. “Tu hai fatto nei miei riguardi azioni che non si fanno. A che miravi agendo in tal modo?” La risposta di Abramo “Io mi sono detto: certo non vi sarà timor di Dio in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie” non è granché convincente, da parte di chi, solo qualche capitoletto prima, si è scagliato alla testa dei suoi 318 guerriglieri contro il potente Chedorlaomer e gli altri re che erano con lui, facendone strage. Non può sapere, Abimelech, che Abramo non è un Habiru qualunque, ma chi sia veramente non gli è chiaro, e la sua preoccupazione si manifesta in visioni notturne. Qualcosa non quadra nella sua storia, pensa Abimelech di Gerar, e nel dubbio meglio trovare un accordo. Se davvero Abramo viene da Harran, perché mai avrebbe lasciato quella metropoli pulsante di vita fra il Tigri e l’Eufrate (in seguito vi sarà fondata la prima università del mondo islamico), per venire a vagare con le sue pecore sulle sassose e desolate colline a sud di Hebron? A prenderne possesso?

Sono colline che sembrano affilare, con la loro liscia pietra, la rapacità dei predoni Habiru. È di loro che ha paura Shuwardata, il governatore o sindaco cananeo di Gat, che qualche secolo dopo scrive al faraone (è la lettera 366, fra quelle ritrovate a El Amarna): “sappi che di nuovo ci hanno attaccato gli Habiru, per prenderci le terre che Dio ci ha dato; e sappi che tutti i miei fratelli mi hanno abbandonato, solo Abdi-Heba di Gerusalemme è rimasto al mio fianco a contrastarli”. Vorremmo sapere di più di come si siano svolti davvero questi fatti, oltre 3360 anni fa, ma molti aspetti rimangono oscuri e c’è chi dice, ad esempio, che Shuwardata fosse in realtà il sindaco non di Gat bensì di Keillah, poco più a sud-est, vicino Hebron – il che ne farebbe un reporter ideale per questo giornale. Quello che è chiaro, anche da altre lettere dell’archivio di El Amarna, è che gli Habiru incutono paura un po’ a tutti gli abitanti della regione: questi invocano l’aiuto del faraone, che arriva tardi e in modo insufficiente, o non arriva proprio, oppure si rassegnano a cercare accordi coi predoni, per cercare di salvare il salvabile. Come hanno fatto i “miei fratelli”, osserva amaro Shuwardata.

È lo stesso dilemma che tormenta ora i fellahin di Massafer Yatta, finiti sotto le mire dei più violenti fra i coloni. Che sono infinitamente più potenti di loro, e armati. A differenza di Abimelech o Shuwardata, pur sempre autorità locali, i fellahin sono contadini e pastori che sopravvivono al limite della sussistenza in baracche o casupole semidistrutte, in parte ricavate da grotte, a volte in tende, consci che qualunque tentativo di reazione ai soprusi, se anche ne avessero la possibilità, sarebbe immediatamente represso. Nonostante la solidarietà di (pochi) israeliani e di giovani attivisti internazionali, quando vengono attaccati fisicamente, spesso sotto gli occhi indifferenti dell’esercito, non possono altro che chiamare la polizia la quale, come il faraone, non interviene proprio o interviene in ritardo, e solo per consigliare bonariamente agli aggressori di andarsene; attaccati nel diritto di proprietà delle loro misere terre, si rivolgono alla corte suprema, che non si comporta molto diversamente dalla polizia. L’alternativa è accettare di collaborare, come informatori – ad at-Tuwani, uno dei villaggi residuali della cintura (il “massafer”) della cittadina di Yatta, si vedono alcune villette, pacchiane ma molto più confortevoli, dove vivono i “mashtappim”, i collaborazionisti. Si cerca di evitare qualsiasi contatto con loro, ma la loro presenza incute angoscia. A Susya, il sito delle rovine di epoca bizantina è stato requisito per farne un parco archeologico e parte delle terre sono state poi date ai coloni dell’insediamento omonimo, mentre alle poche decine di autoctoni che ancora resistono rimangono terreni in gran parte rocciosi. Cosparsi qua e là di “pozze” di terra, a volte di pochi metri quadri, che vengono arati anche quelli, per evitare che la corte suprema dichiari il terreno come abbandonato, e quindi requisibile.

A Zanuta, poco distante, il 17 novembre 2023 le 35 famiglie che ci abitavano sono state costrette a fuggire dagli attacchi dei coloni, che hanno subito colto le opportunità offerte dal massacro del 7 ottobre e dalla guerra a Gaza. A dicembre 2023, dieci case del villaggio abbandonato e la scuola, che era stata costruita con fondi dell’Unione Europea, sono state distrutte e sulle rovine, invece di svastiche, sono state tracciate stelle di David. I bulldozer appartengono a Yinon Levy, il colono sanzionato anche dagli Stati Uniti per violenze contro i palestinesi, che si è insediato poco distante nell’avamposto illegale di Meitarim, dichiarando semplicemente che “dove c’è presenza ebraica, non ci saranno arabi”. Nel luglio (2024) la Corte Suprema ha ingiunto allo stato d’Israele di permettere agli abitanti di Zanuta di tornare alle loro terre, e di garantirne la sicurezza. Si sono fatti coraggio e sono tornati, tutti insieme, con le loro greggi, ma lo stato ha chiesto un rinvio nell’applicazione della decisione della Corte Suprema e, nel frattempo, quello che rimaneva del villaggio è stato distrutto e gli ultimi 40 ulivi sradicati mentre l’”Amministrazione Civile” (l’autorità militare israeliana che governa i Territori Occupati di zona C) ha vietato ai profughi che erano tornati ad abitare fra le rovine delle proprie case di erigere tende per proteggersi dal sole. Nel settembre l’Amministrazione Civile ha confiscato anche i miseri recinti dove venivano tenute le greggi e, stremati, gli abitanti hanno ceduto ed hanno abbandonato di nuovo il villaggio. A ottobre anche il Regno Unito ha deplorato il trattamento “crudele, inumano e degradante” inflitto ai palestinesi dai coloni di Meitarim. Visitando il villaggio deserto pochi giorni dopo Natale, di fretta perché i coloni, dice mia figlia, possono comparire da un momento all’altro e sono armati, ho cercato di immaginarmi a prendere lezione di arabo sulla lavagna, la cui traccia si vede ancora su uno dei muri rimasti della scuola distrutta.

Già, mia figlia. Ha detto alle famiglie di Susya che sono suo padre e, saperlo, ha acceso la loro cordialità. Ma un padre che osserva, sempre zitto; lei ha detto che sta all’università, ma non sembra spiccicare parola di arabo – chissà che in cuor loro non si siano chiesti, come già Abimelech con Abramo…

30 dicembre 2024,  Trieste e Tel Aviv

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