Intervista a cura di
Bruna Laudi
Gabriele Segre, direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, è esperto di temi di identità e convivenza. Specializzato in Politiche pubbliche e Leadership, ha studiato in Università italiane, americane e del sud-est asiatico. Ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate giornalistiche.
Parlaci della tua infanzia e della tua formazione
Sono nato e cresciuto a Torino dove ho vissuto fino agli anni del liceo, quando ho cominciato a viaggiare molto. Torino è sempre stato il posto del ritorno ma anche il trampolino da cui partire per andare in altre direzioni e conoscere il mondo. Cosa che ho cominciato a fare grazie ai miei genitori, un grande privilegio per me e per mia sorella. Mi hanno educato alla cultura del viaggio, più tardi ho cominciato a muovermi autonomamente. Durante il liceo sono stato negli Stati Uniti per un anno scolastico, successivamente con l’università e poi per preparare il dottorato. Ho studiato anche a Milano e a Singapore. Negli ultimi sette anni ho vissuto tra Italia e Israele.
Hai frequentato la scuola ebraica, quali ricordi hai? Hai frequentato la comunità al di fuori della scuola?
Elementari e medie alla scuola ebraica, poi ho frequentato il liceo classico statale Alfieri. I miei ricordi sono ottimi. Ogni volta che mi capita di ripassare per la Comunità, in occasione di eventi culturali, ripenso alla scuola ma non ho mai partecipato attivamente alla vita comunitaria. La mia appartenenza ebraica è stata definita dalla famiglia. Essere nipote di Dan Segre ha fatto sì che avessi un legame molto stretto con Israele.
E qual è la cosa più determinante che ti ha lasciato la scuola, per tutto il tuo percorso successivo di vita?
Aver appreso la curiosità. Ho avuto la fortuna di ricevere questo insegnamento forte, già dalla scuola elementare: ho avuto maestri e professori che veramente mi hanno insegnato a essere curioso. Ricordo in particolare alcuni professori, fondamentali nella mia formazione, ognuno con le proprie dimensioni di conoscenza. Ho dei bei ricordi delle classi che ho frequentato e dei compagni: gli studenti ebrei erano pochissimi e, forse per questo motivo, non mi sono mai inserito in movimenti giovanili né ho frequentato più avanti l’ambiente comunitario. L’istruzione ricevuta alla scuola ebraica è stata molto importante dal punto di vista formativo per la mia crescita culturale e per le mie scelte di vita.
La presenza, all’interno dello Stato d’Israele, di diversi sistemi scolastici forse ha creato una scissione culturale che si riverbera anche sull’attuale politica. Al di là delle urgenze di questo ultimo anno, che ovviamente hanno monopolizzato gli interessi e il dibattito all’interno della società israeliana, gli intellettuali israeliani affrontano queste tematiche oppure considerano non modificabile lo stato attuale?
È assolutamente vero che esiste un problema di incontro e di amalgama nella società israeliana tra appartenenze culturali differenti. Ovviamente la questione linguistica è un elemento di grande importanza: non riguarda solo arabi e israeliani ma anche gruppi che rifiutano l’ebraico e parlano l’yiddish o lingue diverse perché immigrati recenti. Purtroppo, generalmente non si insegna l’arabo in maniera sistematica nelle scuole ebraiche mentre nelle scuole delle comunità arabe invece parlano frequentemente ebraico in quanto altrimenti sarebbero esclusi dalla società. Ma si pone lo stesso problema linguistico con piccole comunità di ebrei israeliani.
È un argomento di primaria importanza.
Io non sono un esperto di educazione, concordo sul fatto che non si sia capito e non si sia voluto vedere quanto stava accadendo. Il risultato è che la questione è diventata centrale nelle relazioni e nella costruzione di una coesione sociale. La scuola è sicuramente il punto centrale di qualunque intervento in questa direzione.
Entriamo in un ambito che forse è più vicino alle tue competenze professionali, quello dei linguaggi. Ci sono ormai una molteplicità di linguaggi che non si incontrano, è la morte della dialettica. Nella mia visione di ebraismo, sono fondamentali il confronto, la varietà di opinione: disquisire anche sul dettaglio era una caratteristica peculiare che ha costruito un universo culturale nei secoli. Mi sembra che in questo momento non ci sia nulla di tutto questo. La dialettica sembra morta: divisi tra nemici e amici, la minima critica viene considerata ostilità aperta a Israele e, spesso, i non ebrei che criticano la politica israeliana vengono considerati antisemiti, mentre gli ebrei vengono definiti “ebrei che odiano se stessi”. E c’è questa idea dell’”unità salvifica” che secondo me invece non è salvifica per niente, ma è la morte del nostro mondo.
Stiamo vivendo sicuramente una fase estremamente difficile, in Israele e nel mondo ebraico. Risale a prima della tragedia del 7 ottobre e di quello che ha significato ma ha anche a vedere con il problema che non è mai stato veramente risolto dalla storia e dall’ebraismo: la capacità di Israele e del popolo ebraico di definire un proprio contorno identitario e progettuale. Questione vissuta in maniera anche drammatica nelle fasi di formazione del pensiero sionista: sappiamo che non era un unico pensiero che vedeva una unica progettualità per il popolo ebraico. La contraddizione non è mai stata risolta anche se, sicuramente, la creazione di uno Stato è, tra tanti, il progetto che ha avuto maggior successo, per aver mostrato la capacità di autodeterminazione del popolo ebraico. Ma lo Stato non poteva, non è, non vuole e non ha mai voluto essere identificato come coincidente con il popolo ebraico. Il problema identitario è qualcosa che non è mai stato totalmente risolto e le relazioni tra Israele e la diaspora hanno vissuto diverse fasi e diverse criticità. Nella storia del sionismo, dopo la nascita dello Stato di Israele l’ambiguità è rimasta latente. Questa sicuramente è una fase estremamente complicata e dolorosa, probabilmente più delicata di altre e più prolungata nel tempo, di fronte a eventi storici che probabilmente non hanno precedenti. Sarebbe forse necessario un lavoro più metodico e più laico per permettere la comprensione di quella che è l’identità e il ruolo della diaspora e della sua capacità di essere indipendente da Israele, pur sapendo benissimo che Israele è fondamentale per il popolo ebraico. Il popolo ebraico deve sentire Israele come un pezzo della sua storia e Israele non può farsi carico e sentirsi responsabile del destino di un intero popolo. Questo ragionamento non esclude la relazione privilegiata e indissolubile. Noi dobbiamo capire la complessità delle varie definizioni di ciò che è l’ebraismo, delle sue relazioni con le società in cui si vive e con Israele. Se già la situazione era complessa prima e questa analisi non veniva approfondita, nell’ultimo anno e mezzo e dopo il trauma del 7 ottobre, si sono aggiunte la fatica, la disperazione e la paura. Il trauma e il dolore non hanno permesso di continuare a fare questo lavoro di elaborazione dei problemi.
Noi sappiamo che la prima vittima della guerra è il pensiero e quindi è assolutamente fisiologico il disorientamento: ma adesso lo scopo dell’ebraismo è ritornare a mettere in discussione non tanto la relazione degli ebrei con Israele ma, prima ancora, la relazione con se stessi. Chi siamo noi e come ci poniamo in relazione agli altri: due questioni parallele, ma non coincidenti.
Dall’osservazione di quanto sta accadendo intorno a noi sembra emergere l’esclusività della compassione, come se non si potesse provare empatia per entrambi i popoli sofferenti: o parli del 7 ottobre o parli di quello che succede a Gaza, come se un argomento escludesse l’altro. Tu ti sei dato una spiegazione del perché non sia possibile essere compassionevoli per entrambi?
Io penso che sia assolutamente possibile. Ritengo che avvenga in molti casi ma credo che sia estremamente difficile per chi prova dolore direttamente, provare compassione per l’altro. Un trauma è sempre assoluto, quando lo si vive.
Quindi le due parti direttamente coinvolte piangono i loro lutti e non possono vedere quelli degli altri. È diverso per chi osserva dall’esterno e non è direttamente coinvolto. Quello che è sicuramente sbagliato è definire il proprio schieramento in base alla compassione: un errore contro quella complessità che richiede approfondimento e per la quale l’empatia non può più essere l’unico fattore. Il mondo e in particolare l’Europa, di cui noi siamo cittadini, non può più essere spettatore solo sull’onda dell’emozione ma deve farsene carico direttamente.
Mi turba, se è vera la mia impressione, che in un momento in cui noi siamo all’apice della tecnologia comunicativa, paradossalmente ci sia una grossa incomunicabilità. Mi sembra, da quel che ho letto, che gran parte degli israeliani non abbia idea di quello che è successo a Gaza. Mi stupisce che non cerchino le notizie nel web, che si accontentino di quello che dicono i giornali e le televisioni, me lo confermi?
La confermo: ma non so se sia una questione di volontà o di relazione con la società in cui si vive che, ovviamente, ti condiziona nella possibilità di fare una scelta personale. Non è una giustificazione in alcun modo ma è una presa di coscienza del fatto che non tutte le forme di attivismo e di cittadinanza, incluse quelle che hanno a che fare con la guerra, dipendano esclusivamente dalla determinazione della volontà individuale. Ti faccio un esempio non paragonabile né per distanze né per magnitudo alla guerra che si vive a Gaza a pochi chilometri da Gerusalemme o Tel Aviv: il caso Almasri (il torturatore libico prima arrestato in Italia e poi riaccompagnato in patria su un aereo di Stato), che ha creato molto scalpore, ci rammenta a livello italiano di come noi siamo totalmente ignari della situazione di ciò che avviene in Libia quindi della disperazione e del dolore a cui l’Italia è in qualche maniera in contatto: non voglio dire responsabile né connivente, ma certamente in contatto. E questo è qualcosa che il cittadino italiano può scoprire se va a leggere reportage e cerca di capire esattamente quello che succede, ma su cui la stragrande maggioranza non riesce a interrogarsi.
Ovviamente non c’è paragone per le ragioni che ho detto prima, per la vicinanza, per la magnitudo, per il fatto che la guerra stia toccando la vita di tutti, ma ha a che vedere con la limitata capacità di un singolo che ha la responsabilità di informarsi, ma vive nella società in cui è immerso e vive e pensa secondo le sue convinzioni radicate e le sue paure. Probabilmente anche la società palestinese ha difficoltà ad attivare un pensiero critico e farsi portatore di una maggiore relazione con la complessità.
Autodeterminazione: una parola in questo periodo molto attuale. L’autodeterminazione di un popolo esclude necessariamente quella di un altro?
No, non può. L’autodeterminazione comporta sempre anche una dinamica di relazione con un’altra determinazione. Definisce un senso di responsabilità rispetto alla cooperazione con l’altro. Perché se noi vivessimo in un vuoto saremmo come una pianta sottovuoto che non avrebbe possibilità di vita. La propria determinazione è realizzata da una relazione con l’altro e dalla relazione con l’altro deriva sempre un rapporto di responsabilità e di necessità. Per cui noi vediamo quanto il conflitto e l’incapacità di riconoscere il diritto alla autodeterminazione dell’altro, hanno scavato un senso di profonda disillusione rispetto alla possibilità di essere e di poter dire di essere liberi, sicuri e sovrani rispetto al proprio destino.
Questo è quello che si vive oggi tanto in Israele quanto nella società palestinese. Io penso che il gioco di ritornare a determinare il peccato originale e quindi tornare indietro nel tempo fintanto che si recupera l’origine dell’errore e della presunta colpa non aiuterà a trovare la pace. Credo che oggi israeliani e palestinesi facciano estremamente fatica a ragionare su di sé.
Rileggendo una tua intervista del maggio 2021 per Shalom mi sono resa conto che il mondo è cambiato totalmente da allora, come se fossero passate due generazioni.
Parlavi del Covid e delle conseguenti difficoltà di relazione, parlavi della mancanza di leadership forti nei governi di allora. Era un mondo diverso.
Dunque, se tutto è diverso, non possiamo continuare a pensare di poter continuare a comportarci sempre nello stesso modo.
Ovviamente non posso esimermi dal chiederti un commento rapido sulle esternazioni di Trump: lo spostamento (forzato?) dei palestinesi da Gaza per costruire sulle macerie delle case distrutte un meraviglioso villaggio turistico di modello hollywoodiano. Sapendo che il giornale uscirà a marzo e che nel frattempo Trump avrà detto e fatto un’altra serie di cose, qual è stata la tua reazione a caldo, emotiva?
La mia reazione è che bisogna sempre ricordarsi chi è Trump, come ragiona Trump, come si muove nel mondo Trump. Sicuramente in questo momento per lui è centrale il futuro delle relazioni tra i due popoli in conflitto e prova a muoversi in maniera differente dal passato: evitando di assumere le stesse logiche che evidentemente non sono riuscite a ottenere risultati. Ora lui esordisce con la sua boutade: il progetto che propone non può che essere provocatorio e lontano dalla realtà e, se viene vissuto come una volontà definita e concreta, probabilmente lascerà delusi molti e forse sollevati altri. Ma se invece venisse visto come la pistola sul tavolo? Come la possibilità di obbligare tutti quanti a ragionare in maniera differente? Sicuramente è un enorme rischio perché la politica non funziona come gli affari. Fallire nelle transazioni commerciali significa fare bancarotta, in politica invece significa causare migliaia di morti. Quindi c’è uno spostamento su un piano differente, ma nel momento in cui assume questo rischio contestualmente obbliga tutti, anche chi è a favore di questo piano, a confrontarsi con modalità diverse dal passato. Il piano di Trump è una assurdità, ma avrebbe potenzialmente questa chance, ovvero di mettere tutti nelle condizioni di doversi misurare con la questione in maniera differente dagli schemi consolidati.
Io non so se la sua intenzione sia realmente di realizzare il piano che, ripeto, non credo abbia alcuna relazione con la realtà, o invece sia una provocazione: non sono nella sua testa, ma il fatto di non poter essere nella sua testa, il fatto che gli altri non siano in grado di determinare quanto faccia sul serio e quanto sia determinato è uno dei punti forza nel costringere le parti a prenderlo almeno sul serio. Essere preso sul serio rispetto a una assurdità, significa obbligare tutti a fare i conti con la necessità di trovare alternative alla sua proposta che non possono essere soltanto di affermare condizioni ormai diventate obsolete.
Hai delle relazioni con degli omologhi, cioè esperti di relazioni internazionali, studiosi, giornalisti palestinesi?
Alcune, ma sempre in contesti istituzionali. Quindi sono rapporti in qualche maniera mediati e ho relazione con diverse persone. Ma se dovessi dirti della possibilità reale di fare un lavoro assieme, è oggi abbastanza scarsa.
Però tu auspichi relazioni più intense?
Non c’è dubbio. Oggi mancano le possibilità sistemiche per poterlo fare però esistono grandi eccezioni fantastiche che sono sempre un modo per far crescere la speranza a livello individuale, personale: ma poi quando si parla di fare sistema, si vede che quelle condizioni non si replicano a sufficienza per creare una progettualità reale.
Sono relazioni per lo più auspicate.