a cura di Bruna Laudi
Che cosa ha indotto Mai indifferenti a uscire pubblicamente in prossimità del 27 gennaio 2024?
La spinta a uscire pubblicamente in prossimità del Giorno della Memoria è stato il profondo disagio che sentivamo dopo il 7 ottobre di fronte all’assordante silenzio delle istituzioni ebraiche su quello che stava succedendo a Gaza. Ignorare questo comune disagio significava ridurre questo giorno a una celebrazione rituale e vuota. Lo scopo era far sentire delle voci ebraiche diverse che, pur riconoscendo l’unicità della Shoah, ne volevano restituire il senso con una riflessione anche sul presente. All’inizio eravamo sette donne con un sentire comune e il desiderio di scambiare le nostre emozioni e il nostro profondo disagio di fronte agli avvenimenti del 7 ottobre e alla successiva reazione dell’esercito israeliano. Così decidemmo di stilare e diffondere un documento per raccogliere adesioni. Questo primo appello, sottoscritto inizialmente da 50 ebree ed ebrei, è stato pubblicato da vari quotidiani e online raccogliendo con nostra grande sorpresa 650 firme di ebrei e non, insieme a parole di apprezzamento e ringraziamento per avere dato voce ai loro sentimenti.
“Mai indifferenti” è nato nel 2024, in prossimità del Giorno della Memoria, presagendo i disagi e i fraintendimenti che si sarebbero realizzati in quella occasione.
Da subito ci siamo resi conto che il nostro appello stava suscitando anche delle reazioni negative da parte del mondo ebraico. In particolare dall’UCEI che nel documento avevamo citato a proposito delle loro “linee guida” per il giorno della Memoria 2024, dove ai testimoni, insegnanti ed educatori che dovevano parlare della Shoah, veniva suggerito di evitare ogni riferimento alla guerra in atto. Ogni critica alla politica israeliana andava infatti intesa come “espressione di antisemitismo” e come tale da escludere. Con una lettera della Presidente dell’UCEI ci veniva chiesto di rettificare quanto avevamo scritto. Noi siamo rimasti sulle nostre posizioni, senza modificare alcunché. Dopo molte riunioni, letture e approfondimenti, in aprile organizzammo un incontro pubblico alla casa della Cultura,” Mai indifferenti – Voci ebraiche per la pace. Parole e oltre”. La partecipazione superò le nostre aspettative. La sala era strapiena e molti se ne erano dovuti andare perché non si poteva più entrare. Abbiamo capito che è molto forte il bisogno di parlarci e interloquire con coloro che, pur avendo un legame con Israele, non vogliono girarsi dall’altra parte di fronte alla violenza di tanti interventi sul campo.
L’azione del governo Netanyahu sta infliggendo al Paese un vulnus che peserà per generazioni.
Il nome stesso di Israele, già compromesso, desta ora ostilità e disprezzo crescenti nel mondo, crea isolamento e insicurezza, e fomenta antisemitismo. Crediamo che mai come ora spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare le donne e gli uomini che in Israele, da settimane, si vanno ormai mobilitando non più solo per la liberazione degli ostaggi, ma chiedendo anche le dimissioni del governo Netanyahu. Sosteniamo gli israeliani che vogliono uscire dal tunnel di strage e distruzione in cui è stato trascinato il Paese.
Cosa è cambiato in questo doloroso anno? Si sono concretizzati i vostri timori?
Purtroppo, i timori del prolungamento dei crimini in atto si sono concretizzati, tanto che il 24 giugno abbiamo sottoscritto un nuovo appello per il cessate il fuoco.
Ma chi ci aveva dato fiducia, firmando i nostri documenti, voleva discutere di fatti e “parole”, quelle che ci dividevano all’interno del mondo ebraico.
L’unica cosa che potevamo fare era preparare un nuovo incontro per affrontare i temi che ci sembravamo cruciali in questo momento e a cui è stato dato il titolo Verso il Giorno della Memoria – Ricordare al tempo di Gaza. Titolo che non a tutti è piaciuto. Volevamo cercare di fare chiarezza su alcuni concetti e parole cruciali. Per citarne alcuni, Stefano Levi Della Torre ha parlato di riconoscimento reciproco, mentre David Calef nel suo intervento si è chiesto se non sia il caso di mandare in congedo l’idea di Israele come di stato vittima al tempo in cui il suo esercito ha ridotto in macerie l’intera striscia di Gaza facendo decine di migliaia di vittime civili. Valentina Pisanty si è soffermata sulla parola antisemita e sullo slittamento del termine da un significato storico preciso a un uso politico strumentale attraverso il quale si equipara l’antisionismo e antisemitismo.
Ha colpito tutti i presenti l’intervento di Widad Tamimi, scrittrice e attivista, col suo racconto/testimonianza di cosa significa essere figlia di un padre palestinese e di una madre ebrea.
Avete in mente di creare una rete o di federarvi con altri gruppi a voi simili?
Come abbiamo dichiarato nei nostri incontri pubblici del 14 aprile 2024 e del 19 gennaio 2025 siamo una rete che vuole creare contatti con altre reti che fanno delle azioni affini in Italia, in Israele e nel mondo, per portare all’attenzione della Politica delle soluzioni democratiche e rispettose dei diritti di tutti. Per esempio, il Laboratorio ebraico Antirazzista (Lǝa) è intervenuto il 19 gennaio a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e speriamo di fare con loro delle iniziative in futuro. Naturalmente è un lavoro in progress, sappiamo che anche a Torino alcuni gruppi si stanno mobilitando in questa direzione.
Il nostro intento è da una parte combattere la politica degli schieramenti “o sei con me o sei contro di me”, contro l’uso strumentale e distorto nel dibattito pubblico di parole quali antisemitismo, genocidio, sionismo e, dall’altra, creare una rete che faccia sentire la sua voce insieme a tante altre persone e gruppi che già ci sono nel mondo. E in particolare sostenere e dare visibilità a quei movimenti in Israele che lottano contro l’occupazione e per la pace.
Manterrete i collegamenti con movimenti per la pace israeliani?
Certamente, abbiamo già avuto in collegamento con noi le “Combattenti per la pace” da Israele il 19 gennaio e vedremo di incontrare/relazionarci con altri gruppi come Standing Together ed altri.
Il rapporto tra diaspora e Israele. Il gruppo Mai Indifferenti cosa ne pensa?
La solidarietà emotiva con Israele è stata per molto tempo una reazione automatica. Basta pensare alla guerra del ‘67 o a quella del ‘73. Ma il sostegno non può essere indipendente dalle azioni compiute dal governo israeliano, non può essere incondizionato e acritico soprattutto se pensiamo che negli ultimi 20 anni, con i governi israeliani a guida Netanyahu, Israele ha preso una decisa deriva autoritaria ed etno-nazionalista. Quando l’esercito israeliano distrugge una scuola a Masafer Yatta o quando bombarda indiscriminatamente un accampamento di tende a Rafah, non si può semplicemente scrollare le spalle o approvare difendendosi dietro la formula “Israele è uno Stato accerchiato da nemici”. Sfrattare dei pastori inermi come succede nelle colline vicino a Hebron (a Masafer Yatta) non ha nulla a che fare con la lotta contro l’antisemitismo o con la sicurezza dei cittadini israeliani. È un puro e semplice sopruso.
Il paradosso del linguaggio: invece di aiutare a comprendersi diventa un ulteriore momento di divisione. Genocidio, antisemitismo… sono diventate armi verbali.
Lo sono state fin dall’inizio tra ebrei e continuano ad esserlo; proprio per questo abbiamo voluto sempre inserire nei nostri dibattiti degli approfondimenti sulle parole, lo abbiamo fatto sul termine genocidio, con l’intervento di Federico Sinicato, avvocato da sempre impegnato nella difesa dei principi fondamentali della Costituzione e con quello di Stefano Levi della Torre che tra le altre cose dice: “il governo Netanyahu ha inteso l’aggressione di Hamas come occasione per liquidare la questione palestinese attraverso la strage e la deportazione dei palestinesi fuori dalla loro terra. Si tratta di genocidio, o si è sulla strada del genocidio? In entrambi i casi si tratta di crimini contro l’umanità che devono essere fermati. Noi pensiamo che i fatti e le intenzioni dichiarate da dirigenti israeliani siano di una tale insistente gravità da imporre di indagare se il tentativo di liquidare la questione palestinese con la strage e la deportazione sia o non sia “genocidio”.
E lo abbiamo fatto con l’intervento di Valentina Pisanty, semiologa, docente a Bergamo, autrice di un libro in cui analizza la parola antisemitismo e dice ”A chi giova la fusione acritica tra antisemitismo e antisionismo? Il primo beneficiario è evidentemente il governo israeliano, cui fa gioco una definizione operativa che, senza eccessive sottigliezze, accorpi in un’unica categoria criminale – l’Eterno Antisemita – ogni avversario politico passato o presente.”
Riconosci in alcune manifestazioni di Movimenti di solidarietà alla causa palestinese una sorta di antisemitismo alimentato da quello storico? O piuttosto trova lievito nei social?
Vediamo innanzitutto una scarsa voglia di conoscere, approfondire, sapere perché si è arrivati a questa drammatica situazione in Medio Oriente. Certamente, lo sappiamo, l’antisemitismo non è mai scomparso, e se oggi è in aumento è non solo a causa della politica di Netanyahu, ma anche per le facili diffusioni di messaggi e pensieri distorti attraverso i social. Noi abbiamo avviato dei contatti col mondo palestinese presente in Italia, così come lo hanno fatto altri gruppi, e speriamo di capire come arrivare ad un incontro futuro con loro, che porti anche i giovani palestinesi a discutere e non soltanto ad agire per slogan. Non è facile, lo sappiamo, ma è un percorso necessario e vogliamo provarci! per preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.
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