Intervista di David Terracini

“…in un tunnel silenziato”

Io ricordo un ragazzino che tutto solo giocava nel cortile calciando il pallone contro il muro del tempio. Nessuno dei compagni della scuola Colonna & Finzi voleva giocare con Daniele, figlio di Marcella, portinaia della scuola ebraica e della comunità, e di Lelio, shammash, assistente al tempio…

Da bambino hai sofferto l’emarginazione.  Da grande hai fatto film sugli esclusi. C’è una relazione?

Può darsi. In ambito comunitario mai una volta che sia stato invitato a una festa dei miei compagni di scuola, perché non appartenevo alla loro classe sociale. In Comunità si sono accorti che esistevo quando ho cominciato a vincere gare di atletica nella Nazionale giovanile.

In 44 anni hai girato 66 film. Mediamente un film e mezzo all’anno. I tuoi film sono decisamente impegnati nel sociale. Come sono stati accolti dalla sinistra ufficiale?

Non sempre bene. Indubbiamente i miei film sono impegnati politicamente, esprimono un punto di vista libero, indipendente, senza padroni e senza appartenenze politiche. Non posso dire che il mio lavoro non sia apprezzato e in molti casi diffuso dal servizio pubblico. La RAI, per esempio, ha messo in onda il film Dinamite, sulla lotta dei minatori del Sulcis, nel 1994 e tanti altri, ma il mio lavoro spesso è stato intubato in un tunnel silenziato  perché anche coloro che teoricamente sarebbero dalla mia parte provano un senso di fastidio. Il mio cinema rompe le scatole.  Nel 2000 ho fatto un film sulla chiusura de l’Unità, che ho titolato Via Due Macelli, Italia, Sinistra senza Unità.  Vi compaiono i vertici dei Democratici di Sinistra: D’Alema, Veltroni, Reichlin…

In uno spezzone del film vedo i dipendenti  de l’Unità che manifestano  in via Botteghe Oscure  col megafono contro la chiusura del giornale e altrove un Ingrao molto duro: in un’intervista rilasciata appositamente per il film, nella sua casa di famiglia a Lenola (LT), racconta della sconfitta a partire dagli anni ’80 e formula previsioni profetiche sul prossimo declino della sinistra italiana…

Walter Veltroni, allora segretario dei DS, attraverso un produttore di fiction che ora gli produce i suoi cosiddetti film  mi ha chiesto di vendergli il mio lavoro sulla chiusura de l’Unità e Asuba de su serbatoiu film, che avevo girato dieci giorni prima in Sardegna, sulla lotta di lavoratori che si erano incatenati su dei bomboloni di gas propano; vi si racconta tra l’altro che era stata la sinistra a voler abolire l’articolo 18. Mi è stata offerta una cifra non indifferente, secondo me allo scopo di sequestrarli ed impedirne la diffusione. Ho rifiutato. Da quel momento mi hanno chiuso tutte le porte. Il mio film Morire di lavoro, del 2007, che tratta degli incidenti degli operai edili, è stato rifiutato dalla Rai, e solo quest’anno a Roma in un festival patrocinato dalla RAI sono stato premiato, presente il ministro Orlando. Sembra un controsenso, ma a volte ho ripreso a lavorare con la RAI quando al governo c’era la destra.

Sul fronte si suda e si resiste, per garantire quello che dovrebbe essere un diritto ma non lo è, e che devi conquistare ogni giorno: il diritto alla libertà di esprimersi.. Non a caso nel 1981 quando ho fondato la mia società di produzione l’ho chiamata I Cammelli, animali tenaci e resistenti.

Effettivamente i tuoi film hanno riscosso un certo successo, a livello nazionale e internazionale…

Sì, ho ricevuto vari riconoscimenti, tra cui il premio Giuliani De Negri al Festival di Venezia, il Tulipano d’oro al Festival internazionale di Istambul, il premio CICAE al Festival del film italiano di Annecy, il premio Filmmakers, il premio NICE a New York, la medaglia d’oro dal Presidente Napolitano, il premio alla carriera “Maria Adriana Prolo”, il diploma honoris causa dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Scuola Nazionale di Cinema.

Una ragazza entra nella stanza per chiedere istruzioni su un montaggio. Mi aggiro per lo studio. Non siamo in una grande struttura di produzione: è un semplice alloggio, con le camere piene di schermi e apparecchiature elettroniche. Tre o quattro colleghi al lavoro.

Com’è che hai cominciato a fare film?

All’inizio facevo fotografie, ma non era una professione, per vivere insegnavo ginnastica, ho insegnato per un po’ di tempo anche alla scuola ebraica, al cinema  sono arrivato perché avevo bisogno dell’immagine in movimento. Un anno mi sono dimenticato di fare domanda di insegnamento come supplente, mi sono trovato ad un bivio e ho scelto di portare avanti il mio progetto cinema. Non ho mai frequentato una scuola di cinema: è buffo, perché da otto anni sono direttore didattico a L’Aquila  della sede abruzzese del Centro Sperimentale di Cinematografia, collaborazione che ho iniziato a partire dal 1996.

Qual è stata l’esperienza cinematografica per te più importante?

Ogni film che realizzo è importante, ma quello che certamente rappresenta per me un’esperienza di vita e di formazione è stato il film Manila Paloma Blanca nel 1992, interpretato da Carlo Colnaghi. Quando l’ho incontrato Colnaghi era un paziente dei servizi psichiatrici, aveva fatto l’attore molti anni prima, voleva riprendere l’attività e su suggerimento di suoi amici si era rivolto a me; aveva problemi di schizofrenia e aveva interrotto qualunque tipo di attività fino ad arrivare a fare una vita da barbone. Per sette anni ho avviato con lui un percorso di “recupero” delle sue capacità di attore; dal 1989 al 1991 con lui ho girato il video Tempo di riposo, video che è stato ispiratore di Manila Paloma Blanca, realizzato nell’anno successivo; il film, girato a Torino, ha avuto come set anche la sinagoga. Negli interni di quella grande ho ripreso Isacco Levi, che ha manifestato una  meravigliosa disponibilità a mettersi in scena e interpretare se stesso. Poi ho girato su una delle cupole della sinagoga  con Carlo Colnaghi e Alessandra Amerio, co-protagonista del film. Perché sulla cupola della sinagoga? Perché io, nei lunghi e noiosi pomeriggi estivi vissuti nella portineria della comunità, a volte me ne andavo su una delle cupole a scrutare il cielo di Torino e osservare le rondini che intrecciavano i loro voli sulla mia testa. In un’altra scena ho coinvolto molti iscritti alla comunità per far loro celebrare l’accensione della Chanukkià. Il film è stato invitato al festival di Venezia nel 1992 e ha vinto il premio “Giuliani De Negri”, poi ha vinto il festival di Instanbul e il premio NICE a New York. È stata un’esperienza straordinaria, intensa, emozionante che mi ha convinto che il cinema poteva dare un contributo alla costruzione di un futuro possibile.

Tu abiti a Torino, non lontano dal tempio. Non provi tristezza a ricordare la tua infanzia di emarginazione?

Tutt’altro, mi affaccio alla finestra, vedo i cipolloni sulle torri del tempio e provo conforto e un sentimento di appartenenza. Non sono religioso, non frequento la sinagoga perché mi dà un senso di oppressione. Ero guardato dall’alto in basso o non mi salutavano nemmeno fin quando non sono diventato una persona nota grazie ai riconoscimenti cinematografici. Da allora sono sorrisi e moine. Sono orgoglioso di essere ebreo, perché l’ebraismo è parte della mia identità. Ecco, una persona che non mi emarginava quando ero uno scolaro “asino” era la preside,  Prof.ssa Amalia Artom, la mamma di Emanuele, che mi dava lezioni di matematica gratis a casa sua. Un altro, da adulto, accogliente e senza pregiudizi era Tullio Levi, che ho molto stimato. E poi Lia Tagliacozzo, presidente della comunità ebraica di Torino quando, nel 1997, ho realizzato il film Sinagoghe, ebrei del Piemonte, coprodotto con la RAI: film che ho voluto fortemente realizzare e che ho dedicato ai miei genitori. Un atto dovuto alla mia storia di ebreo piemontese, che purtroppo non è stato molto apprezzato dai correligionari. Ne fa fede la non diffusione negli ambiti ebraici locali e nazionali.

Pensi che il fatto di essere ebreo abbia influenzato il tuo atteggiamento nei confronti del mondo?

Sicuramente sì, sono nato ad Alessandria, ma da quando avevo un anno i miei si sono trasferiti in un paese vicino a Biella, Pavignano: lì ho imparato a correre veloce per sfuggire ai compagni delle elementari che volevano picchiarmi perché ebreo. Nel 1963 i miei si sono trasferiti a Torino ed è successo anche qui, al quarto anno di ragioneria al Sommelier, tutto è finito con una scazzottata che ha posto fine agli insulti “anti ebreo”. I miei mi hanno educato ebraicamente, ma mi sono sentito più ebreo perché gli altri mi hanno fatto sentire tale. Sicuramente il fatto di far parte di un popolo perseguitato ha influenzato il mio impegno nel difendere gli indifesi. La stessa cosa è capitata a Lisetta Carmi, a cui ho dedicato un film nel 2010 Lisetta Carmi, un’anima in cammino, di cui ho parlato recentemente in un’intervista per Ha Keillah..

E nel lavoro hai avuto problemi analoghi?

Nel 2018 ho fatto il film Ragazzi di stadio 40 anni dopo. Dal 1977 al 1980  avevo fatto i film Il potere deve essere bianconero e Ragazzi di stadio, girati con i Fighters della Juventus e gli Ultras del Torino.  Nel 2018 protagonisti sono stati i Drughi, ultrà della curva sud  della Juventus, per la maggior parte di destra, fascisti. Molti di loro finiti anche in galera, prima e dopo il film. In tutti i set di ripresa non ho mai nascosto di essere ebreo. Quando giravo il film, un ragazzino mi fece vedere la foto di suo padre, che compariva in Ragazzi di stadio, e mi chiese un autografo. Uno dei Drughi mi fa: “uno del gruppo mi ha detto che tu sei un  ebreo di merda”.  Io gli ho risposto: “Dì al tuo amico di venire da me che gli spacco la faccia”. Non ho avuto nessun problema, né con l’amico né con i Drughi.

Come ci si deve comportare quando si gira un film su mondi scabrosi, con personaggi difficili, come criminali o prostitute o malati terminali?

Sono sempre andato io a cercare tutti i protagonisti dei miei film. Non devi atteggiarti da reporter calato dall’alto. Tutti gli ambienti scabrosi sono teatro di sofferenze atroci, se rispetti le persone, loro ti rispettano, ti parlano da amici.

Lelio Segre, padre di Daniele, nella sua cucina di HADERA, fotografato dal figlio (1977)

Qualcosa della tua vita privata?

Ho un fratello, Giorgio, che vive in Israele dal 1955: durante la guerra era scampato a un rastrellamento, per fortuna gli era stato insegnato che il suo cognome non era Segre! I miei genitori  sono andati in Israele nel 1976. Mi sono sposato quest’anno, dopo lunga convivenza, con Elena, architetta e bravissima fotografa. Ho due figli, Marcella di 40 anni, che ho avuto da Isabella e che è mamma di Lia, ed Emanuele di 33 anni, avuto da Elena. Emanuele è socio de I Cammelli, fa cose diverse, più di carattere commerciale, grazie a lui e al suo gruppo la società ha avuto modo di svilupparsi ed essere apprezzata ancora di più.

Ora sei in pensione o continui a lavorare?

Sto lavorando ad un film dedicato ad un cineasta piemontese che si chiama Tonino De Bernardi, di 84 anni, un autore atipico nel panorama cinematografico, un poeta, un amico. Nel film ci sono anch’io, si intitola Tonino De Bernardi, un tempo, un incontro.

Uno sguardo al futuro: qual è l’avvenire del cinema?

Con il Covid e con la diffusione dei social si sono perse le occasioni di incontro al cinema e di discussione, salvo che nei festival. La religione di stato è “Leggerezza e Spensieratezza”. Le cosiddette piattaforme come Disney o Netflix producono serie, che non si vedono più nelle sale ma nel televisore, nel cellulare o nel computer privato. Si spera che i film di qualità sopravvivano, come sono sopravvissuti i libri, sia romanzi che saggistica. Io da tempo lavoro sul digitale, ho trasferito su digitale quasi tutti i miei film, ma non so se in futuro saranno visibili, perché non so se sopravviveranno gli strumenti di lettura, che cambiano con una velocità incredibile.

 


Photo credits: Elena Segre, Emanuele Segre

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