di Beppe Segre
“Qui vivevano nei secoli scorsi solo due popoli: gli ebrei e gli antisemiti. E oggi gli ebrei non ci sono più”. Alle domande sull’Ungheria mi rispondeva con questo aforisma feroce Pierre, caro amico nato a Budapest, arrivato in Svizzera nel 1956 dopo essere fuggito dall’Ungheria per sempre.
Pierre mi fece avere un suo documento con le cifre delle vittime, e mi espose le sue considerazioni: la resistenza ungherese contro il nazismo e l’assistenza agli ebrei perseguitati hanno avuto un’importanza trascurabile, solo i movimenti sionisti si sono organizzati per procurarsi documenti falsi e preparare l’emigrazione con la conseguenza che, degli 800.000 ebrei che vivevano in Ungheria all’inizio degli anni ’40, mezzo milione furono massacrati dall’azione congiunta ed entusiasta di tedeschi, di ungheresi organizzati nel movimento filonazista delle Croci Frecciate e di schiavi del Servizio del Lavoro cui erano obbligati gli ebrei.
La nota si conclude con la frase: “Come coesistere con vicini e colleghi che ci odiano di un odio così viscerale?”
Oggi si stima che gli ebrei attualmente residenti in Ungheria siano circa 100.000. La vita culturale ebraica è vivacissima: sono in azione scuole, teatri, musei, case di riposo, movimenti giovanili, 20 sinagoghe, i beni culturali ebraici attraggono turisti da tutto il mondo.
I dubbi riguardano la democrazia illiberale del leader Viktòr Orban, la politica razzista e xenofobica del governo ungherese, il legame con il partito filonazista Rubbick, la libertà di stampa, l’indipendenza della giustizia, mentre sono sottovalutate e nascoste le responsabilità degli Ungheresi nella Shoah. Le recentissime deliranti dichiarazioni di Orban su “razza” e “razza mista” ci preoccupano.
Come diceva la filosofa Agnes Heller: “L’antisemitismo continua a esistere e a minacciare. Bisogna rimanere vigili ”.
Devo molte informazioni e riflessioni che sono riportate in questo articolo agli studi di Pierre Boskovitz, un ebreo nato a Budapest, miracolosamente scampato alla Shoah a seguito della liberazione di Pest e della riva sinistra del Danubio, comprendente il Ghetto e le case protette il 18 gennaio 1945, fuggito nel 1956, a seguito della rivolta popolare contro il regime comunista e la dominazione sovietica, spaventato dalla possibilità di ritorno del vecchio regime, accolto in Svizzera, studioso di cultura ebraica e di storia del popolo ebraico, ingegnere, bibliotecario prima presso il Sistema Bibliotecario del Politecnico di Zurigo e poi di quello dell’Università di Losanna, redattore della rivista degli ingegneri svizzeri, traduttore, studioso di filosofia e di molte altre discipline.
Mi ha fatto riflettere sulla storia del popolo ebraico e mi ha raccontato le vicende dolorosissime della sua famiglia. Z. L. Sia il Suo Ricordo in Benedizione.
La storia degli ebrei ungheresi è una storia di fatti feroci e crudeli senza uguali.
Per la guerra, l’Ungheria aveva organizzato un “Servizio di Lavoro” sfruttando ebrei, zingari e persone di altre minoranze senza assegnare loro uniformi e armi. Gli uomini del Servizio di Lavoro erano organizzati in squadroni, inquadrati dai soldati e comandati dagli ufficiali del regolare esercito ungherese.
Nel 1942, un’armata di 200.000 militari, con 50.000 schiavi ebrei del Servizio di Lavoro fu trasferita sul Fronte Orientale, sul fiume Don. A sud era schierato l’esercito italiano, a nord i reparti bulgari; le condizioni di questi schiavi erano pessime: il pericolo maggiore per loro non era rappresentato dalla guerra ma dalla violenza dei soldati ungheresi.
Uno di questi infelici era il padre di Pierre, Ivàn Boskovitz, catturato dall’esercito tedesco, trascinato sul Don a servire come schiavo nella grande armata degli alleati di Hitler.
E lì, nel dicembre 1942 a Archangelskoye, nella regione di Voroney, presso Mosca, fu ammazzato di botte da una guardia ungherese.
Un fratello del padre, il caro zio Alfred, era il professore Alfred Boskovitz, importante matematico: aveva frequentato la prestigiosa Università di Gottinga in Germania, aveva mandato un contributo a Bertrand Russell con le sue considerazioni sul libro Principia Matematica, che furono assai utili al grande logico – matematico, che rispose con una lettera di ringraziamento e riportò tali proposte nelle successive edizioni del Trattato. Lo zio Alfred fu impegnato nel famigerato Servizio di Lavoro, poi rinchiuso nel ghetto di Budapest dove morì di fame nel gennaio 1945, pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata
Con la famiglia Boskovitz erano imparentati anche i Szabolcsi: Miksa Szabolcsi[1], prestigioso esponente della cultura ungherese aveva sposato la sorella del nonno di Pierre.
Di Miksa era figlio lo zio Bence, ovvero il professor Benedikt Szabolcsi, che fu un musicologo assai importante. Aveva studiato all’Università tedesca di Lipsia, poi al ritorno in patria la sua laurea sarebbe stata da convalidare da una commissione di esperti, ma in tutta la nazione non c’erano musicologi con titoli scientifici pari ai suoi. Lo zio Bence era la persona più colta tra tutti, sapeva semplicemente tutto: storia, filosofia, matematica, una pluralità di lingue, tutto.
Grande musicologo, professore all’Accademia Musicale di Budapest e socio dell’Accademia Ungherese delle Scienze, zio Bence era un esponente autorevole della cultura ungherese.
Scrisse libri fondamentali sulla storia della musica, e in particolare sulle opere di Bela Bartòk e
Zoltàn Kodàli, le due glorie nazionali ungheresi. Sappiamo tutto di zio Bence, un musicologo, ma soprattutto una persona di grandissima cultura. Ha tradotto Dubnov dall’yiddish in ungherese, facendo un’integrazione, d’accordo con l’autore, per la storia degli ebrei ungheresi. Sembrava che non ci fosse argomento che non conoscesse, o almeno questa era l’impressione che dava ai familiari, sapeva il tedesco, il russo, l’yiddish, l’ungherese, e tante altre lingue. Gli amici dicevano che conosceva tutte le lingue eccetto il berbero. La prima volta che si trovò in Francia, fece una conferenza in francese, non aveva mai studiato l’italiano, ma, quando capitò l’occasione, tenne una conferenza in italiano, e così via. La sua persona fisicamente insignificante irradiava un sapere universale, che ispirava rispetto ed ammirazione. Un grande umanista.
Bence aveva un figlio, Gavriel, che nel 1944 aveva 13 anni. Quando il ragazzo fu catturato dalle Croci Frecciate, il prestigioso professor Benedikt Szabolcsi andò disperato ad implorare colleghi dell’Università e dirigenti dei Ministeri per cercare di tirar fuori dal carcere il figlio, ma il più importante musicologo della nazione, l’umanista che ispirava a tutti rispetto ed ammirazione, non riuscì a salvare il ragazzo dalla deportazione ad Auschwitz.
Tra i numerosi ebrei di Budapest, altri parenti ancora furono catturati dalle Croci Frecciate, deportati, fucilati, buttati incatenati nel Danubio.
Nella capitale occupata dai nazisti, prima di essere rinchiuso nel ghetto, Pierre, con la sua matrigna, e altre famiglie – saranno state dieci, forse dodici persone – stava nascosto in un grandissimo alloggio, in una casa dell’alta borghesia. Ufficialmente l’alloggio risultava occupato da diplomatici di una qualche nazione neutrale, che poi l’avevano abbandonato perché mancava di un rifugio antiaereo. Allora fu occupato da una coppia di signore ebree, madre e figlia, che disponevano di documenti falsi, e quindi potevano presentarsi ai controlli, e addirittura uscire, per acquistare cibo e sentire le notizie. Quando c’era qualche perquisizione, tutti i residenti in quell’alloggio si nascondevano negli armadi, ed ognuno doveva assumere la posizione assegnata.
Pierre ricorda bene quella volta che suonarono alla porta alcuni militi delle Croci Frecciate.
“Arrivo, arrivo, vengo subito, il tempo solo per vestirmi”, esclamò ad alta voce la signora, per dare l’allarme, e segnalare a tutti di andare ad occupare le rispettive posizioni negli armadi. I militari perquisirono l’appartamento, e stavano per rinunciare alla ricerca, quando in un angolo scorsero due gamelle militari, segno dunque che di lì erano transitati, o erano ancora nascosti, forse, dei disertori. Ripresero dunque a battere e scuotere le porte degli armadi, nonostante la signora insistesse che non aveva modo di aprire, perché i diplomatici avevano chiuso tutto e avevano portato le chiavi con loro.
Pierre era chiuso nell’armadio insieme con la matrigna, che non si sentiva bene quel giorno, e ricorda i colpi di baionetta con cui quelli cercavano di scardinare le ante e di sventrare le pareti. La matrigna, istintivamente, fece un movimento, per tentare di tener ferma la parete di legno. E fu questo gesto che li tradì, era la prova che qualcuno era nascosto lì dentro.
Pierre aveva undici anni allora, e ne erano trascorsi oltre cinquanta quando mi raccontò questi suoi ricordi ma non ha mai potuto dimenticare la risata dei militi delle Croci Frecciate, una risata forte, sempre più forte, “aha, ahaha, ahahaha”, una sghignazzata volgare, “vi abbiamo presi finalmente!”, con la soddisfazione gioiosa, feroce e selvaggia dei cacciatori che hanno catturato finalmente la selvaggina destinata ad essere abbattuta e si preparano a dividersi le carni per il banchetto.
[1] Negli anni 1880, Miksa Szabolcsi, giovane giornalista ebreo, si era battuto per la manifestazione della verità nel “Affare di Tiszaeszlàr”: gli Ebrei vennero accusati di omicidio rituale, ciò fece esplodere un pogrom durato sette giorni, perché anche questo succedeva nell’Ungheria di fine ‘800, e il giornalista divenne famoso per il suo ruolo. In seguito, e per più di 50 anni, il suo giornale “Egyenlöség” (Uguaglianza) fu il portavoce degli Ebrei ungheresi detti “Neologhi”. Un giornale per i diritti degli Ebrei, per la religione “moderna” (in opposizione all’ orthodossia), per l’assimilazione alla cultura ed al popolo ungheresi (in opposizione al sionismo), per la cultura in generale. Dopo la morte di Miksa, il giornale fu continuato dal figlio Lajos, fino all’interdizione.