Aborto e diritti acquisiti

di Rav Michael Ascoli

La recente decisione della Corte Suprema americana di ribaltare l’esito della sentenza Roe v. Wade è di eccezionale importanza, gravida di possibili ulteriori conseguenze ed indice di un atteggiamento che darà ulteriori scossoni a certezze che si credevano acquisite per sempre. La vicenda è americana, ma ha inevitabilmente echi in tutto il mondo occidentale. Nasce così, o meglio torna di grande attualità, la domanda “cosa dice l’halakhà sull’aborto?” Cercherò in questo articolo di richiamare alcuni punti-base sull’argomento, nonché di condividere qualche considerazione sia su cosa l’ebraismo desideri riguardo alla legislazione dei paesi sovrani sia sul trauma del rovesciamento di una legge che in molti consideravano intoccabile.

L’halakhà sull’aborto
Nelle fonti rabbiniche di tutte le epoche c’è un’ampia trattazione del tema a testimonianza del fatto che non vi sia una posizione univoca e riconducibile a un generico “no” o ad un generico “sì”. La questione inizia con lo status del feto: alcune fonti vanno chiaramente nella direzione di considerarlo una parte del corpo materno, dunque non una vera e propria vita umana; altre dicono invece che il feto è riconosciuto pienamente come vita umana, e altre ancora introducono una situazione di dubbio. Il periodo di gestazione in cui avviene l’aborto è altresì rilevante: si è in generale più permissivi nei primi mesi, meno verso la fine della gravidanza.

In linea generale, tuttavia, anche secondo chi considera il feto come vita umana in tutto e per tutto non è possibile vietare l’aborto completamente. Vige infatti il principio per il quale “non si respinge una vita a causa di un’altra”. Dunque, se la vita della madre è in pericolo a causa del feto, è lecito l’aborto; viceversa, anche attribuendo al feto uno status inferiore a quello di vita umana vera e propria, non in ogni caso è lecito abortire. Nel pensiero ebraico non si è padroni di sé stessi, il corpo appartiene al Signore e a noi è comandato di custodirlo. Ci è quindi vietato procurare deliberatamente un danno al nostro fisico e tanto più ci è vietato l’aborto se non per salvaguardare la vita della madre. Occorre qui sottolineare che tale salvaguardia della vita materna si estende anche alla sua salute psichica, non solo a quella fisica. La definizione di cosa rientri nell’ambito di rischio per la salute psichica della madre non è univoca e dipende fortemente dalle circostanze. Si comprende perciò che vi siano posizioni diverse fra le varie autorità halakhiche e che le decisioni possano essere differenti per un caso rispetto all’altro. È opportuno inoltre sottolineare che si tende a permettere l’aborto in seguito a una violenza subita. C’è infine chi lo permette in caso di gravi malformazioni del feto.

Questi brevi cenni dovrebbero essere sufficienti a spiegare che l’halakhà ha una visione articolata del problema, molto lontana sia dal “il corpo è mio e decido io”, sia dal vietare l’aborto anche qualora questo salverebbe da conseguenze drammatiche.

Si spiegano così reazioni moderate come quella del Rabbinical Council of America[1].

L’halakhà e la legge dello stato
Una volta ricordate brevemente le posizioni-base dell’halakhà, dobbiamo chiederci quanto sia opportuno per noi ebrei adoperarci, nella misura del possibile, affinché la legge dello stato rifletta l’halakhà[2]. Riprendendo pareri espressi da rav Moshe Feinstein[3] in relazione ad altri temi che pongono dilemmi morali importanti – quale per esempio quello dello stabilire il momento della morte – alcuni articoli recentemente scritti sottolineano l’opportunità di battersi affinché la legge dello stato garantisca a ciascuno il massimo delle libertà individuali ognuno secondo le proprie convinzioni. Ecco dunque che, secondo questi articoli, per quanto la pratica dell’aborto consentita negli USA prima della sentenza della Corte Suprema andasse certamente oltre il lecito secondo l’halakhà, è comunque bene salvaguardare la libertà di aborto piuttosto che restringerla[4].

Per alcuni, più ancora della corrispondenza della legge statale con l’halakhà, contano i dati. Questi sostengono così che la sentenza della Corte Suprema sia stata una decisione giusta in considerazione dell’enorme quantità di aborti che si verificano ogni anno, benché allo stesso tempo auspichino che la legge dei singoli stati non sentenzi un divieto tout court. È questa la posizione espressa dalla Agudath Israel of America[5], di orientamento charedì.

Certezze acquisite
Il verdetto della Corte Suprema americana ha disorientato moltissime persone nel mondo occidentale. Si credeva infatti che il diritto all’aborto fosse acquisito per sempre. Non ho gli strumenti giuridici per analizzare tecnicamente la sentenza, desidero però proporre una riflessione generale. Rimaniamo in America: da moltissimi anni si parla di erigere una “Statua della Responsabilità” sulla costa occidentale degli USA, a completare il messaggio della Statua della Libertà che sorge su quella orientale. Idea originaria di Viktor Frankl, la Statua della Responsabilità non è stata a tutt’oggi realizzata. L’idea è quella che la libertà da sola non basta se non è accompagnata dalla responsabilità. La questione dei diritti non suggellati da doveri o da senso del dovere è parallela. Se si rivendicano diritti senza mai assumere doveri, si finisce per perdere anche i “diritti inalienabili”. Questa visione delle cose è bene in linea con il pensiero ebraico. Come noto, infatti, i nostri Maestri insegnano che non c’è libertà senza dovere (con riferimento al dono della Torà, “non leggere libertà/cherùt, leggi invece incise/charùt”: è dalle parole incise sulle Tavole della Legge che scaturisce la libertà), e il dovere si mette in pratica attraverso una serie di dettagli quotidiani, più spesso piccoli che grandi, con l’osservanza scrupolosa delle norme, con consapevolezza.

Oggi siamo sotto shock per la sentenza della Corte Suprema perché ci sentiamo toccati sul vivo, potenzialmente coinvolti in modo diretto. Improvvisamente sentiamo minacciata la nostra “società dei diritti”. A ben guardare, però, la nostra “società dei diritti” non è così limpida, il nostro benessere deriva anche da situazioni di prevaricazione, di diritti negati, situazioni sulle quali spesso evitiamo di indagare più di tanto, che percepiamo più lontane di quanto dovremmo. Semplificando il ragionamento entro i limiti dello spazio di questo articolo, ciò significa che non abbiamo maturato la responsabilità necessaria per capire da dove viene il nostro benessere. Vorremmo solo quello, senza chiederci su cosa poggi. Diritti senza doveri, libertà senza responsabilità. Un insegnamento che possiamo trarre da questa vicenda è che sì, è necessario e giusto combattere per tutelare le nostre conquiste, ma che questa battaglia va portata avanti non solo come reazione a questioni colossali, non solo come rivendicazione e non solo quando ci tocca potenzialmente in modo diretto, bensì anche con quotidiana attenzione, sensibilità, consapevolezza e senso di responsabilità. Non dare per scontati i diritti acquisiti significa proprio preoccuparsi giornalmente di tutelare i presupposti su cui questi poggiano. Laddove non si coltiva una società che faccia attenzione a piccoli e grandi diritti di tutti, si rischia alla lunga di minare anche quelli che appaiono acquisiti per sempre.

Un secondo insegnamento è direttamente relativo all’aborto: questo deve essere visto non come un diritto incondizionato, scisso da doveri e responsabilità; è invece un rimedio estremo a cui ricorrere in circostanze drammatiche.

 


[1] https://rabbis.org/rca-response-to-the-supreme-courts-decision-on-roe-vs-wade/

[2] Mi riferisco qui alla diaspora. In Israele la questione fra stato e halakhà è, almeno dal punto di vista concettuale, assai più complessa

[3] Rav M. Feinstein 1895-1986, è ritenuto soprattutto in America la più grande autorità halakhica contemporanea.

[4] Si legga ad esempio https://thelehrhaus.com/timely-thoughts/what-does-jewish-law-think-american-abortion-law-ought-to-be/ e l’altro articolo ivi citato alla nota 24. Il lettore interessato potrà trovarvi anche una disamina della questione se l’ebraismo debba cercare di portare i non-ebrei all’osservanza dei precetti noachidi.

[5] La Agudath Israel si è espressa a favore della sentenza della Corte Suprema. Le considerazioni che sono alla base di questa posizione, così come formulate da uno degli esponenti della Agudath Israel stessa, si possono leggere in questo articolo: https://www.jpost.com/j-spot/article-711310.


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