di Ada Treves
Ho provato e riprovato. Scritto e cancellato. Sono tornata al computer, riprovato ancora e poi mi sono rivolta a quella risorsa che non tradisce mai: cercare carta e penna, raccogliere i pensieri.
Molto “da Elio”, questo. Elio che era sempre pronto a schizzare qualcosa su qualsiasi frammento di carta fosse disponibile, Elio che aveva sempre qualcosa per scrivere. Non infilato nella barba, no, quella serviva per gli occhiali, eventualmente, ma a portata di mano una matita c’era sempre.
Il risultato non è cambiato: non c’è nulla che aiuti a mettere insieme queste righe. Come è stato giustamente detto il giorno del suo funerale: “Bisognerebbe chiedere a Elio, lui saprebbe cosa dire”.
Già, Elio saprebbe cosa scrivere, saprebbe cosa fare, saprebbe anche come consolarci. Invece siamo da soli, e tocca a noi.
Credo sia questa la chiave di volta, la vera eredità che ci lascia Elio Carmi: tocca a noi.
E non si tratta solo di portare avanti come possiamo, insieme e tenendoci stretti, i mille progetti che hanno portato bellezza nelle vite di tanti, che hanno dato lustro a una comunità molto amata, che hanno permesso di guardare all’ebraismo con aumentato interesse e rispetto. Si tratta soprattutto di continuare a guardare alla vita con i suoi occhi. Occhi bellissimi, va detto, Elio era uomo di grande fascino, ma soprattutto Elio era energia, positività, fiducia, e una enorme generosità. Dalla sua comunità, che tutto è tranne che centrale e facile da raggiungere, ha saputo irradiare bellezza e arrivare ai cuori, al punto di ritrovarsi al centro di una vastissima rete di persone che sono sempre state pronte ad affiancarlo nei progetti che in qualche modo riusciva a lanciare a getto continuo. E che sicuramente non abbandoneranno la sua Casale.
Un ammaliatore? Anche. Al suo “Si potrebbe…” o “Che ne diresti di…” si rispondeva inevitabilmente con un sì. E non era un sì faticoso, non un assenso strappato per quel dovere di sostenere la cultura e le tradizioni di una minoranza millenaria, che porta tanti di noi a impegnarsi in enti ed eventi, anche se un po’ obtorto collo. Il sì a Elio era condivisione di un’idea, appunto, e della gioia che nasceva da un orgoglio che – anche nelle differenze e nelle discussioni – non è mai mancato. È stato un esempio altissimo di qualcosa che purtroppo sembra di questi tempi essere prossimo a sparire. L’ebraismo italiano è stato nei secoli portatore di cultura, di bellezza, di quel qualcosa di diverso, di quel qualcosa in più che ora sembra avviarsi a essere sommerso dalle brutture, dalle guerre e da una fretta che certamente non gli apparteneva. Lui ne è stato un altissimo rappresentante. “Un signore”, si sarebbe detto una volta. Cultura, determinazione, immaginazione e cuore. E rispetto, e capacità di ascolto, e curiosità.
Fare cose con Elio – e ho scritto volutamente “fare cose” – significava anche prendersi il tempo di fare due passi per Casale, mangiare insieme, raccontarsi. E lavorare, e portare le cose a compimento. Ma il tempo lo trovava sempre. Così come trovava sempre le parole, e le energie, anche negli ultimi tempi, per regalare un sorriso, una visione, un progetto per un futuro che si sapeva forse non l’avrebbe coinvolto.
Non sono la persona giusta per parlare dei suoi successi professionali, della sua carriera, di mille altre sfaccettature che hanno composto una persona unica a cui è stato facile voler bene.
A mancarmi ora sono i suoi sorrisi sbiechi, l’orgoglio di essere parte della comunità di Casale Monferrato che tanto gli deve, la fierezza di tradizioni che non ha solo portato avanti, ma che ha saputo far brillare di nuove luci, l’onestà e la franchezza con cui ha sempre espresso le critiche, le perplessità e la contrarietà quando qualcosa non gli piaceva, a qualsiasi livello, e poi la curiosità e l’energia, il cuore che ha messo in ogni cosa.
E le scatole di krumiri casher, ovviamente.