di Emilio Hirsch
L’est europeo, per me e forse molti della mia generazione, è sempre stato visto con tinte contrastate: la cultura transnazionale mitteleuropea, la fornace del socialismo, l’ebraismo penetrante e l’oscurità della tragedia più nera. Nonostante queste sensazioni così intense e contraddittorie, ha sempre prevalso una percezione nebbiosa, in cui in fondo questa geografia oltre-cortina era non solo ignorata ma anche rifiutata. Parimenti, dopo la caduta dell’impero sovietico, da trent’anni a questa parte, questo lembo di terra viene ancora osservato con un superbo sguardo di superiorità. Questo oriente europeo non lasciava solo spazio all’accondiscendenza verso i suoi poveri e sfortunati cittadini, ma appariva indelebilmente macchiato di un antisemitismo sconfinato e ancora forte, pur in un contesto dove gli ebrei erano di fatto scomparsi. Questo era lo stato d’animo con cui ho accolto l’annuncio che mia figlia avrebbe passato un semestre in Romania e in particolare in una regione, la Transilvania, la cui idea si accompagnava a pensieri lugubri, non solo ricordando il ben noto romanzo inglese (Dracula), ma soprattutto la letteratura ebraica a descrivere il mondo perduto della Mitteleuropa: delle pianure ungheresi, dei monti Carpazi e oltre, fino alle coste del Mar Nero. Insomma, anche se non perfettamente coincidenti dal punto di vista geografico, la mente spaziava dal mondo di lingue variopinte ed inestricabili di Canetti fino alla commistione tra zar di Singer e imperatori asburgici di Roth o le vicende tra Odessa e Vienna della famiglia Ephrussi, narrate dal contemporaneo de Waal. Tuttavia, tutto questo frammisto all’amara percezione di perenne ostilità, di esclusione, di odio.
Con i suoi racconti di un mondo nuovo e ben più accogliente, mia figlia ha demolito queste sensazioni, e la curiosità si è fatta strada. Così, cedendo alle lontananze degli affetti, ci siamo messi in viaggio, con un breve volo diretto siamo piombati in quel mondo, ben meno lontano di quanto immaginato. Abbiamo subito raggiunto la città di Cluj-Napoca che, quando leggevo come destinazione nei tabelloni degli aeroporti, pensavo una misteriosa destinazione asiatica. La rivelazione di questa cittadina universitaria è stata davvero inattesa. Un vero crogiolo di culture per le quali la città stessa cambia nome a seconda delle varie lingue della sua storia, Napoca per i Daci, Claudiopolis per gli antichi romani, Klausenburg per i sassoni, Kolozsvár in ungherese e Kloyznburg in Yiddish. Trecentomila abitanti e tre chiese, una cattolica, una luterana ed una ortodossa ma soprattutto, con mia totale incredulità, due sinagoghe, una ortodossa ed una riformata. La vita tranquilla e ridente di una città in pieno sviluppo con nuove costruzioni, tra cui una colossale cattedrale ortodossa di dubbio gusto moderno e non ancora completata, mettono in risalto un mondo che sta ritornando con industriosità e spiritualità nel pieno di una storia europea, nuovamente condivisa anche con l’occidente. Il turbinio di lingue, dalla panetteria dove si parla tedesco, al bar dove rumeno ed italiano si mescolano in un dialetto comune, contribuisce a farci sentire dove il centro dell’Europa era e forse si ritroverà. Le vie pulite e l’architettura austroungarica, restaurata e rinnovata con i contributi dell’Unione Europea, non hanno fatto altro che consolidare la sensazione che il pregiudizio era tale e il preconcetto superato dalla realtà. Il museo ebraico subito incrociato nel centro ha fatto però di nuovo posto a sensazioni cupe, ma il percorso, narrato in multimediale da più personaggi, aveva sopravvivenza, resilienza e rinascita come filo conduttore. La popolazione ebraica a Cluj nel 1941 era di 16000 individui, il 15% del totale degli abitanti. Nonostante il re del momento, Carlo II, avesse una amante ebrea (poi divenuta sua moglie dopo la guerra), fosse contrario all’ideologia razzista nazifascista e avesse cercato di mantenere l’unità del paese contro la Germania, come accaduto durante la Prima guerra mondiale, la perdita della Transilvania ceduta all’Ungheria sotto pressione tedesca e l’attacco Russo ad est con la sottrazione della Moldavia, portarono la Romania nelle braccia del dittatore filonazista Antonescu. Il risultato fu che, secondo la commissione Wiesel, il numero di ebrei rumeni assassinati rimane, in assoluto, tra i più alti verificatesi nei paesi alleati alla Germania nazista. Ovviamente la cifra della popolazione ebraica è oggi risibile ed una forte emozione ci ha colpiti trovando nel libretto elencante i nomi dei deportati delle maggiori città della zona, pagine e pagine di Hirsch, di potenziali parenti perduti, omonimi tuttavia di fratelli, nipoti, cugini a ricordare che, in fondo, siamo stati duramente colpiti ma ci siamo ancora. E questa sensazione di ripresa e di rinascita è apparsa anche al di là della retorica, non solo a Cluj, ma anche in tutte le altre città visitate, dove la presenza ebraica è tangibile. Poco distante, nella pittoresca Sibiu, o Hermannstadt, la sinagoga risalente al XIX secolo è ancora in piedi e ben tenuta. Anche se la comunità di Sibiu è ridotta ad una cinquantina di persone, viene tenuta attiva ed aperta al pubblico nelle feste principali. Ben più significativa è parsa la presenza ebraica a Brașov, città industriale a ridosso dei Carpazi, ancora una volta con due sinagoghe, chiaramente in attività, con sostegno dagli Stati Uniti e da Israele.
Durante la guerra, la Transilvania era parte dell’Ungheria, invasa e rastrellata dai nazisti nel 1944. Tuttavia, dopo la liberazione sovietica, nella regione, i sopravvissuti erano ancora un numero ragguardevole: secondo lo storico Raul Hilberg, erano approssimativamente il 50% dei circa 700.000 presenti nella Romania territorialmente integra, precedente al 1938. Di questi, 250000 sono approdati in Israele da tutta la Romania, in due grandi ondate. Durante il periodo di Ceausescu, dittatore efferato ma anche l’unico leader oltre cortina a mantenere relazioni con Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967, l’emigrazione è continuata, riducendo drammaticamente il peso demografico della comunità ebraica rumena e portando l’attuale popolazione a circa 3000 individui. Un numero imprecisato è altrettanto riuscito a raggiungere gli Stati Uniti ma ora si stanno riprendendo i contatti aviti, con molti che tornano non solo da turisti e appassionati della memoria. Al Museo Ebraico di Cluj il via vai di turisti, locali e discenti ha davvero suggerito che un ripensamento del passato sia davvero in corso e che un tentativo di conciliazione sia possibile. Al castello medievale di Bran, meta frequentata da turisti di tutto il mondo, l’immagine di commiato mostrava coppie di tutte le etnie e culture del luogo danzare nei loro costumi tradizionali, i sassoni, i Rom, gli ungheresi, i rumeni e gli ebrei ortodossi ballavano insieme, a ricordare che forse in quella terra si può ora convivere pacificamente. Alla fine del viaggio, la sensazione che quel mondo multiculturale dove l’ebraismo è stato così pregnante stia risorgendo dalle ceneri ha lasciato un segno profondo.