di Anna Segre

Il buio

Credo che sia impossibile esagerare l’effetto devastante che il 7 ottobre ha avuto su di noi: orrore, angoscia, paura per Israele, paura per noi stessi di fronte a un’inimmaginabile recrudescenza dell’antisemitismo, senso di insicurezza nella nostra stessa vita quotidiana, senso di solitudine per la mancanza di solidarietà che abbiamo sentito intorno a noi.

Decenni di speranze, di sogni e di progetti distrutti in poche ore; kibbutzim e villaggi devastati; massacro con modalità atroci o rapimento di centinaia di persone tra cui molte che si adoperavano per la pace, per progetti di convivenza, per far curare gli abitanti della striscia di Gaza in ospedali israeliani, ecc. Un terribile schiaffo in faccia a tutti coloro che nel mondo ebraico credevano nella pace. Ovvio che dobbiamo continuare a crederci, ma non possiamo nasconderci che dopo il 7 ottobre è immensamente più difficile.

Possiamo ragionare quanto vogliamo sugli errori commessi da Israele, sugli errori di questo governo, sugli errori di Netanyahu, auspicare che vada a casa, o in galera, il più presto possibile; ma poi? Quali proposte potremo avanzare d’ora in poi? Quali prospettive possiamo almeno immaginare? Quali speranze possiamo ancora coltivare? Quali sogni possiamo ancora sognare?

Come se non fossero bastate le notizie orribili che arrivavano da Israele ci siamo dovuti confrontare con una spaventosa ondata di antisemitismo e con incomprensioni, mancanza di solidarietà, spesso vera e propria ostilità, anche nella nostra vita quotidiana, nelle nostre frequentazioni, nel lavoro, nelle organizzazioni a cui apparteniamo. Sconcerta la mancata condanna da parte delle associazioni femministe degli stupri e femminicidi di massa perpetrati il 7 ottobre. Sconcerta la mancata adesione di alcuni partiti (Verdi e Sinistra, La France insoumise), alle manifestazioni contro l’antisemitismo. Sconcerta che il 25 novembre all’organizzazione ebraica LGBT Magen David Keshet non sia stato permesso di sfilare con il proprio simbolo (appunto un Magen David arcobaleno).

Almeno nei primi giorni dopo il 7 ottobre si poteva sperare che qualche amico o collega con cui avevamo discusso furiosamente fino al giorno prima ci venisse a dire qualcosa tipo: “Io sostengo i palestinesi ma ci tengo a dirti che quello che è successo non ha alcuna giustificazione possibile”. Non sarebbe costato poi molto dirlo, e avrebbe in qualche modo legittimato le critiche successive alla reazione israeliana. Questo, però – stando alla mia esperienza e a quella di altre persone con cui ho parlato – nella maggioranza dei casi non è successo, nemmeno nei primi giorni, quando le vittime israeliane erano molte di più di quelle palestinesi. Per decenni ricorderemo che davanti al più grande massacro di ebrei dopo la Shoah molti non hanno espresso nessuna condanna, molti hanno minimizzato o in qualche modo giustificato, moltissimi semplicemente si sono rifiutati di vedere.

Si sente spesso affermare che è stata la violenza della reazione israeliana a far dimenticare il 7 ottobre. Sarebbe stato logico aspettarsi che succedesse questo, ma francamente devo dire che questa narrazione non corrisponde affatto alla mia esperienza: le frasi più sgradevoli da parte di miei colleghi, per esempio, rivolte a me o pronunciate in mia presenza senza troppi riguardi, sono arrivate tutte nella prima settimana dopo il 7 ottobre; la bandierona palestinese che dominava il campus Einaudi è stata issata il giorno dopo la notizia dei neonati decapitati a Kfar Aza; la manifestazione a Torino in sostegno di Israele del 12 ottobre non ha avuto molti più partecipanti di quella del 17 dicembre. La reazione di Israele è stata criticata con più veemenza nei giorni in cui Israele era oggettivamente in pericolo, in cui piovevano missili sulle città israeliane, poi man mano che il numero delle vittime civili palestinesi saliva la questione palestinese è passata un po’ di moda nei media, sostituita da altri temi quali i problemi famigliari della nostra premier o le ricette natalizie. È normale che l’opinione pubblica dopo un po’ si distragga (è stato così anche con l’Ucraina); resta il fatto che personalmente fatico a vedere una correlazione logica tra il comportamento di Israele e il modo in cui è giudicato.

L’incomprensione

Oltre a questa tempistica sfasata, vedo nelle critiche alla reazione israeliana tre problemi di fondo che a mio parere le indeboliscono molto e le rendono poco efficaci, o addirittura controproducenti, nei confronti dell’opinione pubblica israeliana ed ebraica in generale: prima di tutto, non mi pare che ci si domandi come avrebbe reagito un altro Paese dopo un massacro così terribile di propri cittadini e davanti al rischio concreto che possa ripetersi. Personalmente vorrei credere altri si comporterebbero diversamente da Israele ma onestamente non ci riesco: viviamo in un Paese che sostanzialmente non si preoccupa di lasciar naufragare barconi carichi di decine o centinaia di persone colpevoli solo di voler raggiungere le nostre coste con il pretesto che chissà, forse magari un giorno qualcuno di loro potrebbe compiere un atto terroristico; non oso immaginare cosa farebbe se subisse un massacro delle proporzioni del 7 ottobre. Magari altri, con ragioni migliori delle mie, sono convinti che l’Italia agirebbe diversamente, e magari (mi piacerebbe pensarlo) hanno ragione loro. Ma allora perché non lo dicono apertamente?

In secondo luogo mi sembra incredibile che non si faccia quasi mai il minimo cenno alla deliberata volontà di Hamas di moltiplicare il più possibile le proprie vittime civili per avere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Chi ha veramente a cuore la sopravvivenza della popolazione di Gaza non dovrebbe continuare a dare il proprio consenso a questo gioco cinico e crudele. O, se non altro, dovrebbe porsi il problema: se io decido che chi ha più morti ha ragione per principio non corro il rischio di incentivare la tendenza a non proteggere i propri civili?

Infine credo che sia un grave errore definire la reazione israeliana come vendetta; io sono fermamente convinta che l’ebreo vendicativo sia un mito dell’antigiudaismo cristiano che non corrisponde per nulla agli ebrei in carne ed ossa: personalmente dopo una vita intera di frequentazione del mondo ebraico, in Italia e in Israele, in diversi ambienti, più o meno religiosi, di varie tendenze politiche (tranne, forse, l’estrema destra), dopo migliaia di ore di discussioni, lezioni rabbiniche, ecc. non ho la più pallida idea di come si dica “vendetta” in ebraico e non ricordo in tutta la mia vita nessuna discussione, laica o religiosa, in cui si sia parlato di vendetta. Viceversa, il tema della vendetta abbonda in testi fondamentali della cultura occidentale, dall’Orestea ad Amleto, con un’insistenza che non ha riscontro nella cultura ebraica (non per niente Shylock è un ebreo immaginato da un cristiano). Anche parlare di giustizia (come nella didascalia del disegno sulla prima pagina dello scorso numero di Ha Keillah) a mio parere è fuorviante perché nel mondo ebraico (in Italia ma credo in gran parte anche in Israele) la guerra contro Hamas non è percepita né come giustizia né come vendetta ma come autodifesa. Non è detto che si debba essere d’accordo ma allora si spieghi come e perché Israele può difendersi in altro modo; non è né utile né onesto fingere che il problema dell’autodifesa di Israele non esista (finzione che appare ancora più paradossale se consideriamo che invocare la distruzione di Israele non è affatto un tabu e che From the river to the sea Palestine will be free è uno slogan che non scandalizza più di tanto).

Che fare?

I tre problemi che ho sollevato potrebbero sembrare pretestuosi ma a mio parere non lo sono affatto. Tutti e tre inducono a dubitare della buona fede di chi critica Israele e di conseguenza offrono facili pretesti a chi lo difende senza se e senza ma. Tutti e tre alimentano le incomprensioni e sono ostacoli sulla via del dialogo. Quindi chi vuole davvero la pace a mio parere non può non affrontarli, in particolare il terzo. Credo infatti che sia un gravissimo errore non tenere conto del senso di insicurezza e fragilità che il 7 ottobre ha causato.

Qualunque soluzione si voglia proporre (a meno che non si voglia lo sterminio o l’espulsione di tutti gli ebrei “from the river to the sea”) prima o poi dovrà inevitabilmente guadagnare il consenso almeno di una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana. Chiedere la pace immediata lasciando a Hamas il suo potere offensivo senza nessuna garanzia che non lo usi, pretendere una reazione che non faccia neanche mezza vittima civile, o cose simili (cioè tutto quello che viene detto normalmente in tutte le manifestazioni “per la pace”) significa in pratica affermare: “Israele deve accettare, almeno nel breve periodo, il rischio che si verifichi un altro 7 ottobre perché nulla di ciò che può fare per impedirlo è moralmente legittimo.” Una posizione di questo genere non è né pacifica né equidistante, ma soprattutto non è utile, anzi, è gravemente controproducente perché rafforza negli israeliani e in buona parte degli ebrei la convinzione che è inutile preoccuparsi dell’opinione del resto del mondo perché tanto tutto il mondo è sempre e comunque contro Israele. Con questo non voglio affermare che non si possano proporre soluzioni che la maggioranza degli israeliani non approva. Anzi, non credo neanche che si debbano per forza proporre soluzioni realistiche. Si può dire qualunque cosa purché il messaggio rivolto agli israeliani non sia: “siete moralmente tenuti a correre il rischio di altri dieci o cento 7 ottobre”.

Anzi, sarebbe già un passo avanti se l’opinione pubblica fosse davvero consapevole di quello che è successo il 7 ottobre ed esprimesse una condanna ferma e inequivocabile. Purtroppo non è così, e questo è il problema più grave di tutti, a mio parere il principale ostacolo a qualunque tipo di dialogo, l’origine principale delle incomprensioni di cui ho parlato in precedenza. È importante far capire che le ambiguità, le omissioni, il rifiuto stesso di parlare del 7 ottobre non aiutano in nessun modo i palestinesi e non sono utili alla pace. Nessun orrore potrà mai cancellare un altro orrore o giustificarlo retroattivamente.

Almeno riconoscere che è successo. È già chiedere troppo?

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