di Clotilde Calabi

Clotilde Calabi è docente di filosofia del linguaggio presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano.

L’antisemitismo è una forma particolare di teoria complottista? All’inizio del Novecento I Protocolli dei Savi di Sion, con la loro invenzione di un complotto giudaico, avevano dato nuova espressione e forza all’antisemitismo. Recentemente Roberto Paura ha osservato che “il dramma della Shoah ha messo solo fine a una versione del complotto antisemita: alla fine del Novecento la teoria del Nuovo Ordine Mondiale ha rispolverato molte di queste idee, garantendo al mito del ‘complotto ebraico’ una nuova età dell’oro” (Società segrete, poteri occulti e complotti, Diarkos 2021). In ogni periodo storico l’antisemitismo inventa un complotto diverso di cui incolpare gli ebrei e, inversamente, chi tende a spiegare la storia con i complotti ne trova sempre qualcuno di ebraico. Ma l’antisemitismo è solo una teoria complottista fra le altre?

Innanzitutto, che cosa è una teoria complottista?  Non è semplicemente una teoria che fa riferimento a complotti. È una teoria che si propone di dare una spiegazione di certi fatti rifiutando la versione ufficiale che ne viene data e considera la versione ufficiale dei fatti il prodotto di un inganno su vasta scala orchestrato da un’élite di potenti, al fine di promuovere i propri interessi ai danni della collettività, secondo un disegno nascosto e malvagio. Le teorie complottiste sono di solito formulate da chi non ha competenze specifiche, rifiuta l’autorità degli esperti che, appunto, fanno parte di quell’élite di potenti di cui deve diffidare, e reinterpreta l’evidenza contraria alla teoria come parte del grande inganno. Per questo le teorie complottiste sono generalmente irrefutabili.

Nathan Greppi in un articolo dedicato al complottismo (https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/italia/complotta-complotta-qualcosa-restera-va-in-scena-unossessione-malata ) si è soffermato su alcune teorie complottiste odierne fra le più perniciose per la democrazia e sulla loro diffusione attraverso i social network, e conclude così: “Probabilmente, alla base del complottismo c’è anche una tendenza umana naturale, tanto più forte in certi settori della popolazione che, essendo sforniti di adeguati strumenti culturali, cercano altrove e in maniera semplicistica risposte per comprendere e fronteggiare la complessità del mondo che li circonda”.

Molti psicologi e scienziati cognitivi condividono l’ipotesi che il pensiero complottista risponda a nostri bisogni elementari e sia il prodotto di meccanismi mentali e di scorciatoie di ragionamento (i cosiddetti bias cognitivi) che noi tutti seguiamo. Secondo le filosofe Anna Ichino e Lisa Bortolotti (https://www.syzetesis.it/doc/rivista/archivio/2021/09-Ichino-Bortolotti.pdf ), le teorie complottiste sono una risposta al bisogno di certezze e di comprensione, al bisogno di controllo della realtà e a un bisogno di appartenenza. Di fronte a realtà complesse e disorientanti, tranquillizza pensare che tutto accade perché qualcuno lo ha voluto: è il “bias dell’intenzionalità” (se un certo evento ha avuto luogo è perché qualcuno intenzionalmente ha fatto in modo che accadesse). Su questo bias si salda il bisogno di controllo, che porta a costruire l’immagine di un mondo coerente nel quale ogni male ha un agente responsabile: ci si illude così di controllare gli eventi, perché pensarsi vittime di un nemico che trama contro di noi è comunque preferibile a sentirsi in balia del caso. Ci sentiamo meglio se istituiamo nessi causali fra eventi che in realtà non hanno relazione tra loro (“bias della causalità”). Infine, il bisogno di appartenenza si salda alla naturale tendenza ad aggregarci ai nostri simili, a fidarci di chi la pensa come noi.

Questa tendenza a fidarci di chi la pensa come noi può generare dannosi cortocircuiti. Chi trascura le opinioni diverse dalle sue e le fonti di informazione che potrebbero generare prove contrarie vive in una bolla epistemica — un ambiente da cui sono escluse le voci che contraddicono le proprie opinioni. Certo, è inevitabile concentrarsi su un numero limitato di fatti e di fonti, ma le bolle epistemiche estromettono le voci dissenzienti per creare ambienti in cui si ha la rassicurante e illusoria sensazione che tutto possa essere spiegato. Possiamo farle scoppiare, queste bolle, introducendo l’informazione contrastante che avevano escluso.  Sono più pericolose le camere dell’eco, ambienti in cui le voci che contraddicono una certa opinione non sono solo escluse, ma sono sistematicamente screditate. Nelle bolle epistemiche le voci divergenti non sono ascoltate; nelle camere dell’eco queste voci sono bollate come ridicole, infide e malvage (si veda per es. https://aeon.co/essays/why-its-as-hard-to-escape-an-echo-chamber-as-it-is-to-flee-a-cult).

I bias sopra descritti non sono propri solo del pensiero complottista: sono caratteristiche di tutta la cognizione umana, più forti nei momenti di crisi. E le teorie complottiste che sulla loro base si formano non sono necessariamente irrazionali. Ma anche se bias e bisogni sono universalmente diffusi (i filosofi della mente, gli psicologi e gli scienziati cognitivi in questi anni li hanno ampiamente studiati e hanno studiato gli errori che producono), il complottismo è pur sempre una pericolosa distorsione della ragione.

Ritorniamo all’antisemitismo. Mi trovo d’accordo con Greppi che le teorie complottiste contengono spesso tesi antisemite. I Protocolli sono un testo complottista animato da un odio feroce contro gli ebrei che ha fomentato atrocità spaventose. È adottato come libro di testo in alcuni paesi islamici, proprio come nella Germania di Hitler. Ma non sono convinta che l’antisemitismo sia sempre complottista. Le sue radici sono diverse da quei bisogni universalmente umani di capire il mondo in cui viviamo, di controllare la realtà e di appartenere a comunità a noi simili.

Consideriamo due casi ipotetici, ma rappresentativi dell’antisemitismo emerso in questi mesi. Maria vive in una grande città, ha vent’anni, studia giurisprudenza e pensa di diventare avvocato come suo padre. Va discretamente negli studi, ha tanti amici, fa sport. È rappresentante degli studenti nel Senato accademico della sua università e sostiene che con i sionisti non si dovrebbe avere nessuna relazione. Ha promosso una petizione per rescindere gli accordi fra la sua università e un’università israeliana.

Gianni ha cinquant’anni, è impiegato in un’azienda lombarda, è sposato con due figli ai quali dedica tutto il tempo libero quando non è impegnato nell’attività politica. È stato eletto nel consiglio comunale del suo paese. Anche lui ha aderito alle campagne di boicottaggio contro Israele, crede che il sionismo sia il nuovo colonialismo e a esso vada messa la parola “fine”.
Maria e Gianni, pur tanto diversi fra loro, credono entrambi che Israele sia strumento dell’Occidente, che il sionismo sia il nuovo nazismo, e che gli ebrei della diaspora siano corresponsabili della campagna militare genocida a Gaza. Non si sentono in minoranza, non diffidano delle istituzioni e delle spiegazioni ufficiali. Condividono una diffusissima avversione per Stati Uniti e il “colonialismo capitalista” (qualunque cosa voglia dire). Sono antisemiti? Diranno ovviamente che non lo sono, ma il pregiudizio antiebraico è molto forte.

Si può dire quasi lo stesso di molti studenti delle università americane. Il loro conformismo e dogmatismo riproducono quelli di tanti europei. Hanno la stessa abitudine di togliere la parola agli avversari (e val la pena di ricordare che gli inizi del fascismo e del nazismo sono stati segnati dagli studenti in camicia nera o bruna che impedivano agli avversari di parlare nelle università). L’ideologia woke vede dappertutto i segni del colonialismo e dell’oppressione dei popoli non occidentali.

L’antisemita di oggi è un conformista proprio come lo era nel secolo scorso, sia negli Stati Uniti sia in Europa. In Italia nei primi anni del 900 i compagni di scuola di mio nonno volevano vedere dove avesse la coda. Negli Stati Uniti, ancora negli anni 60, a un professore ebreo appena assunto da un’università, l’agente immobiliare diceva che in certi quartieri gli ebrei non erano ben visti. Gli antisemiti non sono una minoranza, non sono alla ricerca di spiegazioni nascoste, non si sentono vittime delle istituzioni. Ci sono oggi istituzioni che cedono alla prepotenza di chi è più o meno velatamente antisemita, con pretesti vari.
Ma soprattutto gli antisemiti non attribuiscono agli ebrei e a Israele fini nascosti. Né Maria né Gianni inventano narrazioni per sostenere che gli ebrei e Israele stiano ordendo nascostamente un complotto. Il fine esplicito che attribuiscono a Israele è lo sterminio dei palestinesi e credono di trovare conferme nelle dichiarazioni ufficiali dei politici israeliani. Non fanno nemmeno il tentativo di spiegare fatti non spiegati. Ci sono ebrei malvagi colpevoli di atti esecrabili, e i brividi d’indignazione che Maria e Gianni provano sono la conferma che loro sono invece dalla parte giusta.
Dunque, l’ipotesi che l’antisemitismo sia una forma di complottismo e vada analizzato con gli stessi strumenti con cui gli psicologi e gli scienziati cognitivi analizzano il complottismo va presa quanto meno con cautela, ma è possibile che le strategie per arginare l’antisemitismo siano le stesse che si applicano al complottismo. Ce ne sono di due tipi: da un lato ci sono strategie per contrastare la diffusione di teorie complottiste che sono già in circolazione e dall’altro ci sono strategie per prevenire la loro circolazione. Le prime (il cosiddetto debunking) consistono nella censura e nel fact checking. Le seconde consistono nell’educazione e sviluppo delle capacità critiche e nelle cosiddette spinte gentili (o nudging), che favoriscono la formazione di opinioni corrette per es. orientando i motori di ricerca a presentare le notizie in ordine di attendibilità.  Naturalmente nello scegliere la strategia migliore del primo e del secondo tipo bisogna valutare non solo l’efficacia ma anche la legittimità nella nostra democrazia. Mi limiterò a considerare le strategie di debunking.

Il pregiudizio di conferma rende difficile abbandonare opinioni già formate, e la ripetizione di informazioni false per dimostrare che sono false può essere controproducente e anzi dar loro più visibilità. Il fact-checking ha perciò un’efficacia bassa, benché abbia un’alta legittimità perché rispettoso dell’autonomia di giudizio. La censura, invece, è forse più efficace ma la sua legittimità è discutibile perché è in contrasto con la libertà d’espressione. Chi, poi, potrebbe svolgere la funzione del censore?  Efficacia e legittimità delle due strategie di debunking sono asimmetriche e dobbiamo esserne consapevoli quando si tratta di decidere cosa fare per combattere l’antisemitismo (e arginare il complottismo).

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