di Filippo Levi
Le comunità ebraiche italiane sono ortodosse, o almeno la maggior parte di esse, in quanto da molti anni esistono anche in Italia comunità di altro tipo, quali quelle riformate o Habad. Sicuramente tutte le comunità territoriali che aderiscono all’UCEI si definiscono ortodosse, hanno Rabbini ortodossi e rispettano le regole halakhiche per le funzioni religiose, nonché per il proprio funzionamento interno generale. Gli iscritti ad esse devono essere halakhicamente (secondo le norme) ebrei, per nascita o conversione da parte di un tribunale rabbinico ortodosso. In virtù di ciò a nessuno viene chiesto quale sia il proprio grado di osservanza delle mitzvot, se sia shomer Shabbat o che grado di rispetto della kasherut tenga in casa. In ambito per così dire civile, solamente per il diritto all’elettorato passivo nel consiglio delle comunità viene richiesta qualche tipo di “garanzia”, ossia di garantire la continuità ebraica nelle generazioni, anche se, a ben vedere, difficilmente si può declinare in maniera affermativa questo principio per coloro i quali figli non ne hanno generati. Diverso è il discorso per gli aspetti di diritto religioso, come ad esempio il diritto di recitare pubblicamente tefillà o firmare una ketubà (contratto di matrimonio), su cui non intendo esprimermi.
Il principio su cui si basano oggi e si sono basate per oltre un secolo le nostre comunità non è il principio “don’t ask, don’t tell” in vigore sino al 2011 nell’esercito statunitense, per accettare tra i propri ranghi persone omosessuali, senza dover affermare esplicitamente che l’esercito era loro aperto, una sorta di tolleranza delle persone senza un formale riconoscimento del diritto di queste. Il principio alla base delle nostre comunità è invece che tutti coloro che sono halakhicamente ebrei hanno pieno diritto di cittadinanza nella comunità e che questa rispetta l’ortodossia nel vivere comune perché questa è l’unica modalità possibile scelta che permette a tutti di vivere la Comunità senza essere discriminato per il proprio livello di osservanza delle mitzvot. Quindi ciascun membro è libero di fare quello che vuole purché, all’interno del perimetro della comunità, sia rispettoso del prossimo più osservante di lui.
Qualcosa si sta incrinando in questo sistema.
Da molti anni le tematiche del “genere” stanno assumendo sempre maggiore rilevanza nella nostra società. Se fino a pochi anni or sono in Italia la questione era limitata alla definizione di un orientamento sessuale individuale eterosessuale od omosessuale, oggi è sotto gli occhi di tutti come il problema dell’identità sessuale abbia assunto caratteristiche molto più ampie che sfuggono alla semplice definizione binaria di maschio-femmina, eterosessuale-omosessuale, arrivando alla definizione di identità fluide sia per quanto riguarda la propria preferenza sessuale sia per quanto riguarda la propria specifica identità di genere.
A questa dirompente rivoluzione del modo di pensare e sentire ed in definitiva di rapportarsi con le problematiche del genere, fa da controcanto una sempre crescente diversificazione delle famiglie, le cosiddette famiglie arcobaleno, con coppie di genitori del medesimo sesso, risultato di adozioni o di inseminazione naturale od artificiale, in cui comunque il diritto genitoriale è riconosciuto in maniera egualitaria ad una coppia omosessuale (si lo so che in Italia siamo molto indietro su questo terreno, e non sono da attendersi evoluzioni positive in questa legislatura, ma questo è il panorama generale del diritto di famiglia verso cui si stanno muovendo gli stati occidentali e Israele è sicuramente all’avanguardia su questi temi).
Lo sappiamo, l’halakhah non è spesso tenera ed accondiscendente verso queste nuove forme di famiglia, né tantomeno è accondiscendente verso l’omosessualità maschile in particolare. Sebbene esistano anche su questi temi visioni halakhiche molto differenti, come è stato anche testimoniato in passato da articoli pubblicati su questo giornale, non è mia intenzione discutere su come l’halakhah debba rapportarsi a questa tematica, penso invece che sia mio e nostro compito lavorare perché tutti siano accettati all’interno della vita “civile” delle nostre comunità indipendentemente da quale sia il loro orientamento sessuale o di genere o il tipo di famiglia che vogliono costruire.
Queste decisioni, se di decisione si può parlare per la propria identità sessuale, fanno parte della sfera privata esattamente come il senso religioso di ciascuno di noi che ci porta ad osservare con maggiore o minore rigore le mitzvot (o anche a non osservarle per nulla) ed in quanto tale non deve riguardare nel modo più assoluto il nostro diritto di “cittadinanza” nella comunità e la nostra modalità di partecipare alla vita comunitaria.
Purtroppo, invece, sono diversi i casi in cui episodi discriminatori sono avvenuti nei confronti di persone in relazione al proprio orientamento sessuale, sia a livello di individui sia a livello di organizzazioni che rappresentano questi gruppi, persone sono state emarginate e spesso si è rifiutato di affrontare queste problematiche in maniera aperta. Come purtroppo noi ebrei sappiamo bene ed abbiamo sperimentato, talvolta la discriminazione più insidiosa pericolosa e sgradevole non è esplicita, ma strisciante e subdola, fatta di mezze parole, di non detto, di lasciato intendere.
Credo che questo sia un vulnus formidabile al concetto di comunità territoriale di cui parlavo all’inizio dell’articolo e che violi in maniera profonda il principio stesso che ha garantito per oltre un secolo il mantenimento e la coesione delle nostre comunità. Se iscritti o gruppi di iscritti vengono in qualche modo discriminati a cagione di una loro non osservanza di regole halakhiche derivanti dalla sfera sessuale, questo si estende potenzialmente a macchia d’olio su tutti noi, facendo venire meno il principio fondante delle nostre comunità. Preservare le nostre comunità significa consentire a tutti gli ebrei che vogliono farne parte di poterlo fare liberamente indipendentemente dalla loro osservanza. Non possiamo permettere che i nostri giovani non trovino all’interno della comunità un ambiente in cui poter affrontare in maniera aperta e franca i problemi relativi alla loro identità. L’identità personale è cosa poliedrica, piena di sfaccettature e non ha senso voler limitare la discussione identitaria all’ebraismo, quando invece una molteplicità di aspetti la determinano. Similmente non possiamo permettere che figli di famiglie arcobaleno non vengano accolti nelle nostre comunità con lo stesso “kavod“ (onore e rispetto) riservato ai figli di famiglie tradizionali.
Anche la nostra Costituzione è chiarissima in questo senso: se da un lato viene dichiarata l’uguaglianza di tutti i cittadini, dall’altro c’è un fortissimo richiamo a tutte le confessioni religiose ad organizzarsi in maniera rispettosa della legge italiana:
Art 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Art 8: Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
Credo che stia a noi tutti vigilare che nei fatti la vita sociale delle nostre comunità si mantenga inclusiva verso tutti gli iscritti, nel dettato della nostra carta costituzionale e nel solco di una tradizione secolare che ne ha garantito l’esistenza.