CLANDESTINITÀ
Ricordi dopo 80 anni
di Enrico Hirsch
Fino alla fine di ottobre del 1943 siamo rimasti sfollati a Carignano, ma il nostro soggiorno lì durò ancora per poco tempo. Sia mio padre che mio zio erano troppo conosciuti in quel paese dove dal 1934 erano soci della “Copeca”, piccola conceria di pelli di coniglio e perciò era necessario cercare un rifugio più sicuro e qui occorre riconoscere che molti li aiutarono.
Il geometra Gandiglio, amico di papà, trovò per noi un piccolo appartamento a Balme, paesino di montagna al fondo di una delle valli di Lanzo. Anche suo figlio Nino diciottenne dovette fuggire per evitare di essere chiamato alle armi e, benché molto più vecchio di me e mia sorella, fu un allegro compagno di giochi e di scivolate sulla neve.
La famiglia dovette velocemente predisporsi per la nuova destinazione.
A Torino al nostro vecchio indirizzo si era ricercati. Mio padre percorrendo corso Costanzo Ciano (così era stata rinominata corso Inghilterra) per recarsi a vedere se c’era posta incontrò la signora Callegaris, amministratrice del palazzo dove abitavamo, che gli disse, “ma signor Hirsch cosa fa lei qui, sono già venuti a cercarvi! È pericoloso, non si faccia più vedere!”
Doveva iniziare un’epoca di clandestinità, occorreva procurarsi carte di identità false, tessere annonarie[1] anche queste intestate a nuove identità. E poi bisognava lasciare in qualche nascondiglio ciò che non si poteva portare con noi.
L’automobile di papà, una Fiat 1100 granata e con i parafanghi neri, fu parcheggiata in un locale della Copeca, le ruote furono smontate e la macchina appoggiata su ceppi di legno. Altre cose furono nascoste o seppellite nel giardino in attesa di tempi migliori. Trascorsero più di cinque anni prima che tutto potesse ritornare alla luce.
A Balme, la mia famiglia trascorse alcuni mesi invernali, fino a che un pomeriggio, durante una passeggiata con mio padre e mia sorella, incrociammo una pattuglia di carabinieri e ci chiesero i documenti. Il nostro cognome era diventato Cervi, traduzione di Hirsch. Questo cognome ci accompagnò fino alla fine della guerra
Quell’episodio non ebbe conseguenze immediate, ma per papà fu un ulteriore chiaro segnale che anche Balme non era un posto sicuro per la famiglia: eravamo otto persone facilmente riconoscibili.
In quel periodo molte famiglie di ebrei torinesi si erano rifugiate nelle tre valli di Lanzo e alcuni di loro si aggregarono alle formazioni partigiane partecipando attivamente alla Resistenza. Gli abitanti di quelle valli, che sapevano perfettamente di queste persone nascoste, diedero per quanto loro possibile assistenza, rifugio e speranza[2]. Mio padre era solito frequentare il dottor Teppati, medico locale; si riunivano a casa sua durante le ore serali per ascoltare Radio Londra. Forse fu lui a suggerire a mio padre di chiedere aiuto al parroco di Balme, soprattutto per garantire un rifugio per noi bambini.
L’Istituto Gesù Bambino di Torino aveva una sede a Balme dove, sotto la supervisione di Suor Valentina e di altre suore, circa trenta bambini torinesi in fuga dai bombardamenti vi frequentavano la scuola materna ed elementare. Mia sorella ed io fummo ospitati in questa struttura come membri interni.
Rimanemmo quindi affidati alle cure delle suore dell’Istituto.
Il distacco improvviso dai genitori fu doloroso e traumatico, anche perché per parecchio tempo non li rivedemmo più.
Gli adulti si trasferirono a Torino, dove riuscirono a sopravvivere – attraverso molte avventure e varie difficoltà – rifugiandosi per qualche tempo in conventi religiosi o soprattutto grazie all’aiuto di amici fidati.
Ma la guerra continuava ad infuriare forse più in montagna che in città, tedeschi e repubblichini facevano incursioni nelle valli per effettuare continui rastrellamenti.
Un giorno arrivarono i tedeschi con motociclette e carri armati, e si piazzarono in un prato proprio al di sotto dell’edificio dove noi abitavamo. Un colpo di cannone fu sparato contro un edificio proprio vicino al nostro dove c’era la tabaccheria; una donna fu ferita e un buco rimase proprio sopra la vetrina del negozio. Forse per tranquillizzare le suore un soldato tedesco con gli stivali si presentò loro, entrò e offrì a noi bimbi una galletta. Le truppe tedesche avevano da tempo bloccato l’accesso alla valle con l’obiettivo di affamare la popolazione e i partigiani che combattevano sulle montagne.
Il pane mancava, si mangiava solo polenta dalla colazione alla cena, polenta e latte, polenta e marmellata.
A fine luglio 1944 le suore decisero perciò di ritornare a Torino con i loro bambini e noi con loro. In quale modo le suore comunicassero con i nostri genitori posso solo immaginarlo, comunque mio padre, avvisato del nostro arrivo, ci venne a prendere alla stazione della Ciriè-Lanzo. Da molti mesi non lo vedevamo e in più, forse per non farsi facilmente identificare da qualche malintenzionato, si era fatto crescere i baffi, e noi stessi in quel momento stentammo a riconoscerlo.
Il nostro vecchio alloggio era stato occupato da altri inquilini e poi era meglio star lontani di lì, poiché mio padre era stato anche allertato dalla portinaia Domenica Ramasco del pericolo di farsi vedere da quelle parti! Perciò i miei genitori avevano dovuto affittare un piccolo alloggio, ma era rischioso stare tutti uniti a Torino e poi noi eravamo in età scolare. La soluzione fu quindi di chiedere nuovamente a quelle suore di ospitarci.
L’Istituto Gesù Bambino di Torino era una grande scuola nella periferia sud della città; non accoglieva studenti interni e noi fummo “adottati” dalla Madre Superiora Suor Ida Vizzolini passando come suoi nipoti.
Lì abbiamo frequentato le elementari nell’anno 44/45 e siamo rimasti fino alla fine della guerra.
Suor Ida ci trattava amorevolmente: alla sera, prima di addormentarci, ci faceva recitare lo shemà aiutandoci così a mantenere e non dimenticare la nostra identità.
Identità che con i nostri compagni abbiamo dovuto continuare ad occultare.
Ogni tanto la mamma veniva a trovarci, ma al momento del distacco io mi disperavo troppo e perciò fu costretta a ridurre sensibilmente le sue visite che diventavano una pena indicibile per lei e per me al momento della separazione.
Alla fine dell’anno scolastico 44/45, Torino fu finalmente liberata dal nazifascismo e così sostenemmo gli esami finali nella scuola pubblica e, con stupore dei nostri compagni di scuola, abbiamo potuto riassumere il nostro vero cognome.
Il nostro caso fu certo un esempio di solidarietà umana e di grande rispetto della nostra identità religiosa.
Ritengo che il nostro caso non sia stato unico, ma in accordo con l’opera di soccorso di Monsignor Barale, allora segretario del vescovo di Torino.
Infatti, Monsignor Barale, per quanto aveva fatto a favore di altri ebrei torinesi, fu insignito dallo Yad Vashem del titolo di “Giusto fra le nazioni”.
Anche di quelle suore, cui va tuttora il nostro affettuoso ricordo e il nostro imperituro grazie, rimane presso lo Yad Vashem la testimonianza mia e di mia sorella Marcella.
[1] La tessera annonaria era un documento personale che definiva la quantità di merci e di generi alimentari razionati acquistabili in un determinato periodo. In Italia venne reintrodotta con decreto ministeriale durante la Seconda Guerra Mondiale, a partire dal 1940
[2] Bruno Guglielmotto-Ravet e Marino Periotto nel loro breve “Dalla Villeggiatura alla Clandestinità – Presenze ebraiche nelle Valli di Lanzo tra metà Ottocento e seconda guerra mondiale – edito dalla Società Storica delle Valli di Lanzo – 2002 pag 51” E’ interessante quanto riportano sulla decisione di molti sfollati civili di lasciare le valli in quel periodo e sui diversi comportamenti nei confronti degli ebrei rifugiati dei comandanti dei Carabinieri di Ceres e Lanzo, che furono secondo gli autori “dettati sicuramente dalla diversa situazione militare della zone di loro competenza” . A Ceres, erano presenti i partigiani, a Lanzo, i nazisti e i repubblichini.