di Bruna Laudi
Dal 7 ottobre siamo entrati in un turbine di emozioni: avidi di notizie ma contemporaneamente terrorizzati dalle notizie, dalle immagini, dai commenti, dai post sui social, dagli slogan delle manifestazioni. E molti di noi scelgono la rimozione, le interpretazioni degli avvenimenti che ci rassicurano, le analisi che in qualche modo giustificano gli orrori o li minimizzano e spostano le responsabilità. Alcuni di noi si sono fermati all’orrore del 7 ottobre, momento di non ritorno in cui sono crollate le certezze, la fiducia in servizi segreti che sembravano avvolti in una narrazione mitica e che si sono lasciati sorprendere, la convinzione di un esercito efficiente, pronto ad accorrere dove ci fosse il pericolo e a difendere donne, bimbi, anziani inermi. Il trauma è stato terribile e le conseguenze sono state devastanti, prima di tutto per chi ha subito la violenza sul proprio corpo ma poi anche per le nostre anime che si sono offuscate e che non vogliono vedere la realtà ma cercano disperatamente di allontanarla, di nasconderla o di attutirla attraverso le parole: come se per i bambini terrorizzati dai bombardamenti, dai lutti, dal sangue, dal dolore fisico e morale, dalla mancanza delle abitudini rassicuranti, dalla perdita dei luoghi e del nido, fosse importante sapere se quello che accade si chiama crimine o autodifesa o vendetta o punizione o vigliaccheria di chi li usa come scudi. E spendiamo ore in discussioni per confrontare le nostre fonti, la nostra cultura, i nostri studi e non affrontare la nostra anima che si sta perdendo.
Ma queste sono considerazioni personali e mi sono chiesta quanto i miei sentimenti fossero condivisi: ho chiesto aiuto ai ragazzi del GET (Giovani Ebrei Torinesi) per capire quale fossero le loro emozioni: per il poco tempo a disposizione ne sono stati interpellati solo alcuni e quindi lo spaccato che ne esce non è significativo dal punto di vista statistico ma ci racconta comunque un segmento del loro vissuto. Ringrazio di cuore Rachele Tedeschi che ha avuto la pazienza di raccogliere e inviarmi le riflessioni che seguono e che purtroppo, per ragioni di spazio, sono state estrapolate dai testi che generosamente hanno scritto.
Dalle loro parole emerge, accanto allo shock, la necessità di condividere il senso improvviso di isolamento e di estraneità rispetto a quello che fino al giorno prima consideravano il loro mondo.
R.“A novembre del 2023, il GET (Giovani Ebrei di Torino) ha organizzato una tavola rotonda aperta ai giovani per parlare delle sensazioni e del vissuto in seguito all’attacco del 7 ottobre. Fino a quel momento era capitato di parlare dell’accaduto, soprattutto in segno di solidarietà e amicizia reciproca ma raramente di andare oltre la superficie. A quell’incontro però, ognuno di noi ha tirato fuori degli elementi diversi che insieme formano un’immagine del momento. Forse la maggior parte di noi si è sentita scossa, mancando dei punti di riferimento che si credevano saldi, a partire dai campus universitari che non apparivano più come un luogo sicuro. Alcuni hanno riportato un sentimento di dolore, a tratti anche somatizzato e tramutato in insonnia. Altri, invece, si sono sentiti paralizzati senza sapere cosa pensare di fronte a tanto e non riuscivano a processare la situazione.”
C1. “Dal 7 ottobre, il nostro tessuto sociale sta crollando come mai ci è parso prima d’ora. Amicizie di una vita vacillano nel giro di una conversazione. Amici e compagni di corso che il 7 ottobre ti davano una pacca sulla spalla senza comprenderne nemmeno il motivo, oggi pubblicano oscenità prese chissà da dove, convinti di difendere chissà cosa, mentre i più equilibrati si dichiarano comunque “completamente neutrali”, ignorando le conseguenze che si palesano sotto i loro occhi attraverso i muri della loro stessa città, i commenti sotto ogni sorta di post e avanti così.”
“E così il nostro atteggiamento cambia: diventiamo chiusi, guardinghi, sfuggenti, ci sentiamo soli e spaesati. Nel quotidiano si procede alla Pirandello: lavoro, università, amici, si fanno cose e si vede gente, ormai persuasi che le uniche comprensione e sostegno che possiamo trovare siano tra di noi. E così, stanchi e rassegnati, ci richiudiamo nelle nostre nicchie di comfort zone, rendendo ancora più difficile per chi ci circonda capire cosa sta succedendo.”
G.“Nessuno di noi è stato fermo. Nel nostro piccolo ci siamo mobilitati per creare una rete di aiuti alle famiglie israeliane che si trovavano in Italia dopo il 7 ottobre, per dare loro una casa dove stare provvisoriamente e tanto calore.”
“Nonostante questi forti momenti di unione, solidarietà e fratellanza, la paura regna ancora sovrana tra i giovani ebrei: all’ordine del giorno vi sono manifestazioni che gridano all’intifada e inneggiano Hamas, bandiere Isis che sfilano durante le proteste pro-palestinesi ed un clima d’odio con graffiti sui muri, striscioni e scritte che inneggiano alla caccia all’ebreo. Non avremmo mai pensato di avere timore per la nostra incolumità, soprattutto in luoghi che dovrebbero rappresentare tutti gli studenti, senza differenze di genere, etnia e cultura.”
D.“Mi è capitato spesso, per una ragione o per l’altra, di trovarmi a discutere con i miei amici riguardo le questioni in medio-oriente. Non sono le opinioni in sé che mi spaventano, legittimate dal sacrosanto pensiero libero, ma piuttosto la disinformazione che si cela dietro di esse. Ho sentito persone paragonare Hamas ai partigiani, come se una delle più grandi organizzazioni terroristiche del pianeta, famosa per stragi, stupri e rapimenti, combattesse guidata da un fuoco di resistenza e desiderio di libertà per il popolo palestinese. In guerra non ci sono vincitori, non ci sono buoni e cattivi, solo persone che soffrono per le azioni di qualcun altro.”
C2. “Io in quanto ebrea italiana e legata anche in modo diretto ad Israele, mi sento un’estranea a casa mia: nella mia università ci sono manifesti per la “liberazione della Palestina”, infatti cerco ormai di frequentarla solo per le necessità.”
“Da ebrea molto legata all’ebraismo ma relativamente poco osservante e religiosa, ho anche ricevuto però del graditissimo e non scontato sostegno da miei amici non ebrei che mi hanno sostenuta molto, si sono informati, mi chiedono notizie e aggiornamenti, si sono messi al mio fianco in modo incondizionato aldilà dell’opinione geopolitica in merito.”
“Spero poi in generale che davvero ci possa essere una pace fra i popoli, che anche i civili palestinesi possano finalmente vivere in democrazia e in libertà e che possano vivere una vita normale e non da medioevo, in un paese che si occupi di fornire loro i mezzi necessari per una vita dignitosa e non che glieli porti via e li mandi a farsi saltare in aria in nome di Dio, che possano dimenticare la dottrina antisemita a cui sono stati sottoposti tutta la vita; spero che tutti i bambini, israeliani e palestinesi, paghino meno possibile il prezzo di questa guerra e che possano guarire questo trauma e questa ferita che si porteranno dentro a vita, insieme in modo positivo e costruttivo, dandosi la mano e non sparandosi a vicenda, che creino un futuro migliore l’uno affianco all’altro.”
Per sollecitare la discussione avevo dato alcuni spunti ed uno era:
Vi siete interrogati sulla tragedia della sofferenza subita ma anche di quella inflitta?
Non ho letto risposte a questa domanda. Allora ho voluto estendere la mia indagine, cercando voci diverse in numerosi documenti e appelli letti in queste settimane, anche per trovare conforto ai miei sentimenti, alla angoscia di fronte alle immagini dell’esodo dalle città di Gaza e delle macerie delle loro case. A scanso di equivoci sono emozioni analoghe a quelle da me provate di fronte alla tragedia di Aleppo, distrutta nel silenzio generale o delle città dello Yemen (solo per fare degli esempi) che non hanno neanche avuto il conforto di manifestazioni simili a quelle che oggi animano le città europee.
Si può trovare sul sito della Libreria delle donne[1] un documento dal titolo Mai indifferenti in cui ho ritrovato alcune riflessioni, diverse da quelle precedenti, ma che ampliano il panorama delle diverse sensibilità. Per esigenze di spazio ne copio solo alcuni stralci.
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nell’avvicinarsi del Giorno della Memoria e nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.
Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia. Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti. Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi. Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.
Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini? Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.
Un’altra voce dissidente è quella del Il “Laboratorio Ebraico Antirazzista” costituito da un gruppo di giovani ebrei italiani, ragazzi e ragazze, che si batte dal 2020 contro la politica di annessione dei territori palestinesi ad Israele e contro le forme di antisemitismo presenti in Europa.
Riporto brevi brani di un’intervista[2] che mi sembrano inerenti ai temi affrontati in questo articolo: rispondono tre giovani del gruppo Bruno, Tali, e Daniel, di cui riporto le iniziali accanto alle dichiarazioni.
Confrontandosi hanno scoperto di avere vissuto esperienze simili, in quella che T. descrive come “una posizione scomoda” perché nelle comunità ebraica c’è “poco spazio per la critica” delle politiche di Israele. Ma dall’altra parte anche la difficoltà di essere ebrei di sinistra, quindi di attraversare ambienti politici trovandosi spesso a disagio “a causa di forme di antisemitismo che consce o inconsce, non sono sufficientemente elaborate”. E sono spesso negate. Da qui la voglia di costruire un punto di vista condiviso, senza rinunciare però a frequentare né la comunità ebraica, né i gruppi della sinistra. “Fanno parte delle nostre vite”.
Oggi di fronte al massacro di civili attuato da Hamas e alla punizione collettiva dell’esercito israeliano, è facile perdere la speranza o sentirsi impotenti. Ma la priorità per questi giovani ebrei italiani è “riconoscersi nel dolore dell’altro”, spezzare la catena di lutti, anche se ora sembra impossibile. “Cosa provo? Abbiamo perso amici attivisti da entrambe le parti. – spiega D. – Innanzitutto c’è questa profonda sofferenza e il senso di sconfitta, perché non si riesce a capire che per ogni civile morto c’è dietro una famiglia che soffre e che si radicalizza ancora di più. Quindi la pace è più lontana. Aumenterà semplicemente il fanatismo da una parte e si rafforzerà l’estrema destra dall’altra”.
Ma il conflitto porta con sé non solo la mobilitazione per la fine dei bombardamenti, ma anche la paura che gli ebrei diventino un obiettivo, per la recrudescenza di sentimenti antisemiti. “Da quando è iniziata la guerra abbiamo visto acuirsi la polarizzazione nel discorso pubblico in Italia e in Europa, alimentata soprattutto dalla retorica dello scontro di civiltà. Una situazione accresce la stigmatizzazione delle comunità ebraiche da un lato, ma anche di quelle islamiche dall’altro”, ragiona Tali. Ci sono stati infatti episodi preoccupanti tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, contro entrambe le comunità. Ma attenzione, se l’antisemitismo, come ogni discorso di disumanizzazione dell’avversario, non va sottovalutato, non va neanche strumentalizzato: “Siamo contrari a chi usa l’accusa di antisemitismo per portare avanti campagne politiche di censura di manifestazioni che supportano la causa palestinese.”
D. sostiene che le comunità ebraiche in Italia sono variegate e eterogenee al loro interno, “così come lo è il nostro gruppo e la nostra partecipazione all’interno delle comunità. Le persone delle comunità ebraiche italiane fanno parte della società civile italiana e quindi rispecchiano in piccolo il dibattito pubblico del nostro Paese. Nel nostro Paese c’è stata una virata verso destra e questa cosa si è riflessa anche nelle comunità”
“Spesso noi ebrei veniamo interpellati da persone comuni su Israele come se fossimo i responsabili di ciò che avviene lì. Allo stesso tempo, il governo di Israele pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei. – spiega B. – Noi prendiamo la parola in quanto ebrei, pur non sentendoci responsabili di quello che fa il governo israeliano, ma abbiamo dei legami con Israele. Abbiamo dei legami con gli attivisti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza”.
E per il futuro? Se, finita l’occupazione, parlare di un solo stato multiconfessionale e multietnico sembra lontanissimo, intanto oggi la priorità è affermare “una condizione di giustizia, eguaglianza e di libertà per israeliani e palestinesi”. Serve il riconoscimento dell’altro affinché possa esserci una coesistenza sullo stesso territorio”. Ma ogni giorno di guerra tutto questo si allontana di un altro passo.
Mi sembra che questa frase, riportata nell’intervista, sia la conclusione migliore per la mia breve indagine e la risposta a chi chiede: “Ma cosa pensano gli ebrei di quanto sta accadendo?”
Le persone delle comunità ebraiche italiane fanno parte della società civile italiana e quindi rispecchiano in piccolo il dibattito pubblico del nostro Paese.
[1] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/mai-indifferenti-appello-per-il-giorno-della-memoria/
[2] https://www.fanpage.it/politica/i-giovani-ebrei-contro-il-razzismo-per-coesistere-serve-giustizia-e-liberta-per-israeliani-e-palestinesi/