DEL CATTIVO USO DELL’ORGOGLIO

di Marco Vigevani

 

“Orgoglio: esagerata valutazione dei propri meriti e qualità”. Ho ripensato a questa forte definizione del Grande Dizionario etimologico della lingua italiana di Cortellazzo e Zolli dopo essere uscito giorni fa  dalla Moschea Blu di Istanbul,  dove  mi ero fermato a leggere alcune tavole di legno a colori vivaci , scritte in inglese e poste sotto le arcate dell’ampio cortile. Le tavole erano intitolate “Muslim Contributions That Changed The World” ed elencavano – a edificazione dei fedeli, ma immagino, poiché erano scritte solo in inglese, soprattutto dei visitatori e dei turisti –  le invenzioni e le scoperte che nei vari campi del sapere e della scienza erano da attribuire ai fedeli dell’Islam. Se escludiamo il caffè o l’algebra, che tutti sanno essere di origine araba, erano elencate senza alcun ordine: la macchina fotografica, il volo, i vaccini, la stilografica, la chimica, l’architettura, la chirurgia, la stampa, l’ingegneria meccanica, la geografia, la polvere da sparo, la navigazione, gli orologi e gli assegni.

In un primissimo momento queste roboanti quanto ingenue rivendicazioni mi hanno strappato il sorrisetto di superiorità di chi la sa più lunga. Tuttavia, già avviandomi verso l’uscita del complesso monumentale, un pensiero improvviso mi ha colpito con tanta forza da costringermi a fermarmi di scatto, mentre la mia compagna era già sulla strada.  Quelle tavole, con gli stessi colori squillanti ed elenchi non molto differenti, avrebbero potuto figurare benissimo nel cortile di una qualsiasi istituzione ebraica religiosa o laica, in Israele o nella diaspora! Non abbiamo forse inventato il monoteismo, fondato la morale, inventato la psicoanalisi, scoperto la relatività, fondato il marxismo, non sono forse ebrei i più grandi matematici, scienziati, musicisti, economisti degli ultimi due o tre secoli di storia dell’Occidente? Per ogni grande non ebreo – per Montaigne come per Proust o Cristoforo Colombo – esultiamo nello scoprire un avo o un parente qualsiasi che ne faccia un membro del nostro popolo.

Mentre nel caso dell’orgoglio islamico si tratta di una chiara rivendicazione anti-occidentale –  per mostrare che il mondo moderno non è un portato esterno ma un frutto per così dire naturale della propria civiltà – nel caso ebraico la faccenda è forse più complessa. Il popolo disprezzato, la “pietra scartata dai costruttori” del salmo 117, diventa, attraverso l’orgogliosa rivendicazione dei propri primati, la pietra angolare di quel mondo cristiano che l’aveva per secoli discriminato e perseguitato.   Incorrendo, in questa spasmodica ricerca del brand, della “griffe” ebraica in un curioso paradosso: infatti, il grande periodo della cultura ebraica in Occidente non è quello contrassegnato dalla purezza dell’identità, dalla separatezza imposta o scelta dei ghetti e degli shtetl, ma quello della Haskalah, dell’Illuminismo e della tanto deprecata assimilazione. Quella assimilazione che è stata –come non vedono gli assertori della chiusa identità –una fertilizzazione a due sensi, in cui sia la minoranza sia la maggioranza hanno assorbito elementi l’una dell’altra e così facendo sono cresciute. Come ha scritto Wittgenstein, “La robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre una sull’altra”.

Ma che male c’è ad essere orgogliosi di essere ebrei dopo esserci così a lungo nascosti e poi, in molti casi, vergognati delle nostre origini? E d’altra parte l’orgoglio israeliano, del pioniere, del kibbutznik come del soldato, è stato un fattore decisivo per la rinascita di un sentimento positivo di autostima dopo l’abisso della Shoah. Il fatto è però che a questo orgoglio laico, si è andato sommando negli ultimi decenni un sentimento di superiorità religiosa, di “Dio con noi”, quel misto di sangue e suolo contro cui metteva in guardia, già immediatamente dopo il 1967, un grande pensatore come Yeshayahu Leibowitz.

Io credo che l’orgoglio esagerato di cui ci siamo nutriti in quanto ebrei, soprattutto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita dello Stato di Israele, ci abbia inoculato un falso senso di superiorità, che purtroppo è risultato in molti di noi in un etnocentrismo esasperato, in una insensibilità verso gli altri popoli e individui e in casi purtroppo sempre più frequenti di vero e proprio razzismo. Fare di ogni nemico un nuovo Hitler, di ogni critico – che sia Gutierres, Borrell o Amnesty International – automaticamente un antisemita, è un grave riflesso condizionato, che rischia di togliere ogni senso a una lotta contro il reale antisemitismo. Si può essere orgogliosi persino di essere vittime o di pensarsi sempre come tali e avere subìto la Shoah non ci esenta dal sottoporre le nostre azioni al giudizio morale altrui, come chiunque altro. Il “vittimismo per procura” della Shoah, il brandirla come fosse un’arma contro ogni dissenso (e allora come stupirsi se altri la strumentalizzano?)  è stato, a mio parere, un altro fattore di questo cieco orgoglio: negativo ma non incomprensibile nella società israeliana, assediata e militarizzata da decenni, ma triste e grottesco nelle “curve da stadio” della Diaspora, ove, per un malinteso “amore verso Israele” se ne giustifica ogni aspetto, lo si idolatra, quasi un nuovo Vitello d’Oro. Il non voler vedere mai le nostre mancanze, le nostre colpe, come ebrei o come israeliani, mortifica il nostro spirito critico, indebolisce la nostra coscienza, ci getta nelle braccia di chiunque – per i suoi scopi e non per i nostri – ci adula e ci esalta.    Non si predica per decenni la superiorità di un grande popolo, solo contro un mondo malvagio, ove chiunque osi criticarci diventa immediatamente un antisemita, senza gli esiti che oggi vediamo con tristezza e orrore in Smotrich, Ben Gvir e i loro numerosissimi seguaci dentro e fuori Eretz Israel.