di Rimmon Lavi
Sia in varie nazioni europee sia in Israele negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’ondata nazionalistica ed etnocentrica con tendenze autocratiche, che minacciano le basi liberali delle democrazie sorte dopo la Seconda guerra mondiale e dopo il crollo dei sistemi totalitari e coloniali, prima di destra e, verso la fine del secolo XX, anche di sinistra.
Vivendo in Israele e guardando all’Italia, fino a pochi anni fa, ci si poteva sentire relativamente sollevati, data la maggiore instabilità dei governi e gli scandali personali che caratterizzavano la situazione politica in Italia. Non che la politica interna israeliana sia stata mai un esempio di buongoverno di tipo nordico ma, tenendo in considerazione i gravi problemi esistenziali d’Israele e il crogiolo culturale delle varie ondate d’immigrazione, non si poteva non valutare positivamente l’accettazione della democrazia, per lo meno all’interno della popolazione ebraica, nello stato da poco fondato. Anche il passaggio nel 1977 del potere dall’egemonia laburista e sindacalista (ma non meno nazionalista ed etnocentrica) a quella della destra liberale e populista non intaccò le basi dello stato di diritto, grazie al legalismo di Menahem Begin. Ma da quando Benjamin Netanyahu è arrivato al potere nel 1996, e soprattutto dal 2009, la democrazia israeliana che stava appena maturando è diventata invece sempre più fragile. Già l’amicizia e il supporto reciproco tra Netanyahu e Berlusconi, basati su affinità di carattere, demagogia e onnipresenza sui media, hanno promosso il culto personale, l’edonismo sfrenato e la corruzione, cui hanno fatto seguito inchieste penali e l’epurazione dal partito di governo della guardia legalista e liberale, incluso il figlio di Begin stesso. Sotto la guida di Netanyahu, primeggiano i rappresentanti più grossolani e violenti all’interno del suo partito, nonché nei gruppi estremisti ultranazionalisti e religiosi dell’attuale coalizione, quasi come in Italia sotto Giorgia Meloni. Analogamente a come lei cerca di apparire moderata rispetto ai suoi seguaci, così Netanyahu tenta di contenere i suoi fedeli messianici e razzisti. In passato già si notava la sua ammirazione per la politica e i governi autocratici in Polonia e Ungheria, fino alla proposta attuale di riforma giudiziaria, che annullerebbe l’indipendenza della magistratura e la separazione tra i tre poteri dello stato di diritto – in un paese già privo di costituzione, di sistema bi-camerale e di decentralizzazione del potere.
Non entro nei particolari della riforma proposta, già descritta sui numeri scorsi di queste pagine da Paola Abbina. Vorrei piuttosto soffermarmi sulle speranze che emergono dalla reazione popolare a difesa dello stato di diritto e della democrazia, reazione che continua a pieno volume da più di quattro mesi consecutivi. Le manifestazioni di massa pluralistiche (religiosi non fanatici, laici, liberali, socialisti, accademici, innovatori tecnologici, ufficiali superiori e veterani delle riserve militari, dirigenti delle finanze, sindacalisti, professionisti) hanno ripreso possesso delle bandiere nazionali che per anni erano state monopolio della destra. La protesta è riuscita a sospendere, seppure solo per pochi mesi, il blitz legislativo, perché percepito come minaccia all’economia israeliana e alla sicurezza dello Stato.
Purtroppo, gli arabi israeliani si sentono emarginati anche dalla protesta, troppo etnicamente “ebraica” e non civilmente “israeliana”, pur essendo essi il 20% della popolazione, e certamente i primi danneggiati dall’autocrazia della maggioranza ebraica, senza i freni, pur sempre limitati, di una Corte Suprema autonoma. Neanche l’occupazione prolungata dei territori palestinesi e l’espandersi delle colonie ebraiche, sotto un regime sempre più simile all’apartheid, sono al centro della protesta popolare, eccetto che per gruppi marginali, nonostante tutti sappiano che, in fondo, questo è non solo il problema fondamentale ma anche la causa dell’estremismo nazionalista e xenofobo, sfruttato dai demagoghi populisti.
Molto preoccupa il divario sociale e culturale tra gli oppositori e i sostenitori della “riforma”, tra gli ebrei d’origine europea e occidentale e quelli originari dei paesi arabi; tra i borghesi meglio istruiti e benestanti della metropoli moderna intorno a Tel-Aviv e dei kibbutzim da una parte e quelli meno dotati delle periferie, delle zone agricole e delle società più tradizionali dall’altra. Tra i più cosmopoliti ed i più soggetti alla demagogia carismatica di persone come Netanyahu o, peggio ancora, seguaci dichiarati del defunto politico razzista Meir Kahane.
Tuttavia, si discute ancora animatamente se le manifestazioni possano adesso, con tocco miracoloso, creare l’occasione di comporre e adottare finalmente una costituzione, a difesa dei diritti fondamentali del cittadino, per contenere in futuro eventuali minacce allo stato di diritto, da maggioranze casuali, di destra o di sinistra. Tutti i 23 scioglimenti del parlamento tra un’elezione e l’altra hanno finora impedito di approvare una Costituzione, già promessa dalla dichiarazione d’indipendenza del 1948. Fanno eccezione le poche leggi fondamentali, il cui significato giuridico è posto continuamente in discussione. Nella sedicesima Knesset il presidente della “commissione costituzione, legge e diritto”, cioè degli specialisti legali del Likud, aveva diretto 76 sedute con esperti di tutte le parti sociali e rappresentanti di tutti i partiti, per poi vedersi abrogare nel 2006 dall’assemblea generale persino la raccomandazione di continuare a preparare una proposta di costituzione: i tre grandi partiti di allora, incluso quello di Netanyahu, avrebbero sostenuto ufficialmente la proposta, ma senza obbligare i loro deputati, contro una maggioranza promiscua di partiti minori, religiosi, ortodossi, arabi e di sinistra. Adesso la situazione è ancora più difficile, data l’opposizione dei religiosi a qualsiasi norma che non rispetti innanzitutto la Legge divina e l’interpretazione della Halakhah ortodossa. Soprattutto essi temono il diritto all’uguaglianza di tutti, ebrei e non ebrei, uomini e donne, etero e omosessuali, etc. Ora la destra anche non religiosa, sempre più etnocentrica e xenofoba, vorrebbe sancire nell’ordinamento giuridico l’egemonia ebraica, minacciata proprio dalla colonizzazione nei territori occupati: se la popolazione di questi fosse inclusa ci sarebbe già una realtà di 50% arabi tra il mare e il Giordano sotto dominio (parzialmente già apartheid) israeliano. La legge fondamentale della Nazione del 2018 codifica appunto l’egemonia etnica ebraica e la riforma ora proposta dalla coalizione ebraica di maggioranza permetterebbe di incrementare il potere del governo e del parlamento, senza che la Corte Suprema e la Magistratura possano intervenire in difesa del principio d’eguaglianza tra i cittadini.
Se fosse possibile in questo periodo di discordia approvare una costituzione con ampio accordo (e non solo a semplice maggioranza casuale), quale potrebbe esserne il valore in uno stato senza frontiere concordate in un trattato di pace, che include sotto il suo dominio militare da più di 55 anni milioni di persone senza diritti civili?
Già nel 2006, l’allora presidente della Knesset Reuven Rivlin, più tardi divenuto presidente dello Stato, pur conscio della necessità di adottare una costituzione, aveva ammonito di non aspettarsi che la sua codificazione potesse trasformare la società israeliana, così divisa da lotte tribali, in un paradiso democratico di tipo nordico. Rivlin propose già allora di accordarsi per lo meno su alcune norme di base per regolare il funzionamento dei tre poteri e per regolarne i loro rapporti di equilibrio. È questo che dovremmo cercare di ottenere anche adesso, rimandando per ora il sogno di una costituzione e di una democrazia più completa.
Se c’è qualcosa che possiamo ancora imparare dall’Italia, è il ruolo che il presidente Sergio Mattarella continua a svolgere, a fronte delle uscite nostalgiche e revisioniste dei seguaci della Meloni, attivi in Casa Pound e nel partito Fratelli d’Italia: è proprio lui che dichiara senza esitazione che la Costituzione italiana è nata 75 anni fa direttamente dalla Resistenza, sulle ceneri della tragedia della guerra, contro il nazifascismo antitetico alla democrazia, contro l’alleanza con Hitler, contro le leggi e le persecuzioni razziali.
Così Isaac Herzog, attuale presidente dello Stato d’Israele, dovrebbe chiarire con la sua autorità morale che la dichiarazione d’Indipendenza del 1948, coetanea della Costituzione italiana, include l’impegno e la promessa dei fondatori di salvaguardare l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini, come lezione universale tratta dalla tragedia della Shoà, e come garanzia nella patria-rifugio per gli ebrei perseguitati. Forse potrebbe citare anche il messaggio biblico, ripreso dal vecchio Hillel: “non fare al prossimo tuo ciò che non vorresti fosse fatto a te”, rinnegato proprio dai nostri estremisti e religiosi ultraortodossi.
Gerusalemme Maggio 2023