DIALOGHI POSSIBILI
di Bruna Laudi
La linea del Gruppo di Studi Ebraici è da sempre favorevole al confronto, alla discussione, alla analisi di diversi punti di vista e alla possibilità di trovare sintesi comuni. In quest’ottica ci si è mossi, in questo anno orribile, cercando di dare voce a quelle realtà, anche piccole, che in Israele coinvolgono abitanti di Israele, arabi ed ebrei, abitanti della Cisgiordania, che lavorano insieme con l’obiettivo di creare un futuro dove la convivenza sia possibile.
Nel frattempo, però, gli effetti della guerra si sono sentiti anche in Italia, mettendo in discussione relazioni antiche, appartenenze politiche, dialoghi interreligiosi: è aumentata la diffidenza reciproca, le parole sono diventate carboni ardenti da maneggiare con estrema cura per paura di essere fraintesi.
Si è creato un disagio che ha indotto reazioni diverse. Da un lato la sensazione che bisogna fare quadrato, mostrarsi uniti, evitare ogni critica al governo israeliano, stare perennemente all’erta per sorprendere sul nascere embrioni di antisemitismo e denunciarli pubblicamente, con il rischio di apparire arroganti e ego-centrati; dall’altro l’esigenza di esprimere critiche e perplessità, in coerenza con i valori di riferimento di una vita intera, per un’esigenza personale di chiarezza, consapevoli di essere accusati di voler fare “gli ebrei buoni”, quasi in una sorta di captatio benevolentiae in cui è ravvisabile il tradimento.
In questo contesto si sono presentate tre occasioni, molto diverse tra loro, a cui ho deciso di partecipare.
Incontro organizzato a Livorno
L’ANPPIA di Livorno (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti) ha scritto alla redazione di HaKeillah, la scorsa primavera, per coinvolgerla nella presentazione di un libro edito dal Manifesto “La terra più amata: voci della letteratura palestinese” che raccoglie testimonianze di vari autori palestinesi. In coerenza con la linea da sempre seguita, pur consapevole delle difficoltà che potevamo affrontare, in accordo con la redazione ho coinvolto Sarah Kaminski, in quanto esperta di letteratura non solo israeliana ma anche palestinese e che ha subito accettato con entusiasmo. Dopo varie vicissitudini organizzative l’incontro si è svolto a Livorno il 20 ottobre, in un circolo ARCI, con grande partecipazione di pubblico: erano presenti oltre a Sarah e me i due curatori del libro e il giornalista palestinese Alì Rashid. Moderava Renzo Bacci, presidente dell’ANPPIA. La situazione si è subito presentata piuttosto difficile: i curatori del libro hanno scelto di partire facendo una ricostruzione storica del sionismo con una lettura molto di parte. Alì Rashid, con grande pacatezza, ha narrato la sua testimonianza e Sarah ha riportato il discorso sul piano letterario, mostrando anche diverse riviste israeliane che parlano di letteratura palestinese, citando scrittori e poeti che lei apprezza molto, mettendo in luce relazioni tra scrittori israeliani e palestinesi. Infine, a me è toccato di fare la sintesi: ho descritto le emozioni provate leggendo il libro, le ho paragonate a quelle provate leggendo le testimonianze israeliane sui fatti del 7 ottobre e ho colto l’occasione per parlare della necessità del reciproco riconoscimento che nasce proprio dall’empatia e dalla capacità di capire che l’altro è una persona, con i suoi affetti, le sue paure e la sua enorme sofferenza.
La sensazione che abbiamo avuto Sarah ed io è stata che le persone presenti abbiano colto, almeno per una breve periodo, la possibilità di affrontare i problemi e le diversità con un occhio più attento, meno accecato dall’odio. Certo questo non servirà a risolvere gli enormi problemi che affliggono la regione, ma potrebbe indicare una strada per stabilire un contatto con le centinaia di studenti che affollano le nostre piazze e che intravedono solo la possibilità di salvezza degli uni a prezzo della sparizione degli altri, che non hanno, ai loro occhi, nessuna legittimità.
Presentazione del libro “Il suicidio di Israele”
La seconda occasione è stata la presentazione, organizzata via zoom dal POLOCITTATTIVA di Cisterna d’Asti, del libro di Anna Foa “Il suicidio di Israele” che tante polemiche ha suscitato in ambiente ebraico. L’interlocutore di Anna Foa era Gabriele Segre, giornalista ed esperto di geopolitica mediorientale, molto rispettato per il suo equilibrio. Non entro nel merito del libro, di cui si è parlato moltissimo, ma mi preme segnalare che il pubblico era numeroso e, soprattutto, molto eterogeneo. Il libro, che tanto scandalo ha suscitato per il titolo, ha una parte storica di gran lunga prevalente sulla parte di critica politica e questo significa che tante persone, che lo hanno acquistato per trovare conferme ai loro giudizi, hanno anche avuto l’opportunità di leggere un documento scientificamente più valido di quanto generalmente viene proposto dai loro ideologi di riferimento. Il confronto tra Anna Foa e Gabriele Segre, molto pacato, è stato un esempio di dialogo e di eterogeneità di pensiero del mondo ebraico che, con mio grande stupore, a volte sembra rifiutare proprio questa ricchezza che gli è propria.
Incontro con le responsabili di “Combattenti per la pace”
Infine, l’ultimo evento, cui ho assistito come spettatrice a Firenze, è stato l’incontro dal titolo “La Pace è la Via”, con Eszter Karanyi e Rana Salman direttrici del movimento pacifista israelo-palestinese “Combattenti per la pace”, (in ebraico לוחמים לשלום).
I fondatori di questo movimento, nato nel 2005, sono giovani israeliani e palestinesi i quali, nel loro passato, hanno preso parte ad azioni violente nei confronti del “nemico”, i primi in qualità di soldati dell’esercito israeliano, i secondi collaborando alla lotta violenta per la liberazione della Palestina. Ora perseguono l’ideale di una convivenza pacifica fra i popoli, la quale deve essere conquistata servendosi dell’arma della non-violenza.
Inizialmente il movimento era solo maschile, in seguito sono entrate le donne che presto hanno avuto ruoli apicali: attualmente Rana e Eszter hanno funzioni direttive.
Rana Salman, palestinese, racconta che il 7 ottobre è stata una data shock che ha creato una crisi nell’associazione, superata grazie alla fede nella non violenza. Dopo tale data sono aumentate le restrizioni per i palestinesi ed è stato vietato l’accesso a molti luoghi, per cui molte riunioni si sono svolte con zoom. Rana sostiene l’importanza di continuare a condividere emozioni e costruire fiducia per lavorare insieme: organizzano dimostrazioni comuni per il cessate il fuoco, portano aiuto materiale e solidarietà agli agricoltori della Cisgiordania. Un sopravvissuto al 7 ottobre è in Cisgiordania ad aiutare a raccogliere le olive. Sul piano educativo sono impegnati a creare programmi didattici comuni.
Rana si occupava di turismo alternativo, con l’obiettivo di far vedere non solo luoghi famosi ma far conoscere la realtà delle persone. Quando ha incontrato Combattenti per la pace è rimasta colpita nel vedere insieme ex militari ed ex militanti: ha pensato che forse c’è un’altra strada e si è accostata al movimento con poche altre donne. Adesso ci sono molte donne e molti giovani. Il loro è un programma di liberazione per tutte le comunità. Ci vuole spazio per entrambi i popoli, non devono essere alternativi ma devono avere entrambi diritto di vita, non ci sarà liberazione finché non ci saranno diritti per tutti.
Eszter, israeliana, racconta che fanno una cerimonia comune per Yom HaZikaron, per commemorare tutti quelli che hanno perso la vita nel conflitto.
Entrambe ribadiscono con convinzione che non si tratta di ingenui sprovveduti: forse il loro numero è esiguo ma sono convinte che il percorso intrapreso è l’unica via.
Per Eszter è importante il riconoscimento anche formale dello stato di Palestina.
Il pubblico, attento e interessato ha posto diverse domande.
Da cosa devono liberarsi palestinesi e israeliani?
Entrambe rispondono che bisogna liberarsi dalla paura. Per Eszter è necessario svegliarsi e respirare e capire che gli altri non sono diversi. Abbandonare l’idea di vendetta: è convinta che la sicurezza non arrivi con la guerra.
Rana pensa che sia necessario liberarsi dal trauma intergenerazionale, dalla violenza, dalla narrazione ma anche dall’occupazione che significa vivere nella paura e senza libertà. Liberarsi non solo dei check point e dei muri ma anche della divisione nelle menti che non permette di vedere l’altro. Gli uni e gli altri da soli non vanno da nessuna parte. Tutti dal fiume al mare hanno gli stessi diritti. Non c’è soluzione militare al conflitto.
Dove sono i giovani?
Rana. Reclutare giovani è una sfida ma stanno aumentando, proponiamo programmi educativi alternativi per Palestina e Israele: non violenza con esempi di successo, come condividere esperienze e uso dei social media, incoraggiare a lavorare insieme. È anche importante promuovere un programma educativo degli insegnanti per parlare dell’occupazione. Dopo il 7 ottobre questi programmi sono stati sospesi ma, con grande sorpresa, a marzo sono arrivate 96 nuove richieste.
Occorre promuovere incontro e dialogo: molti giovani palestinesi non hanno avuto la possibilità di incontrare israeliani se non soldati o coloni… Una nuova generazione si sta preparando.
Governo e esercito israeliani come si rapportano agli attivisti?
Eszter. Molti attivisti sono obiettori di coscienza e come tali rischiano la prigione e la condanna sociale. L’esercito non tollera l’attività di aiuto agli agricoltori ma la non resistenza da parte dei volontari impedisce lo scontro: c’è anche da affrontare l’aggressività dei coloni.
Entrambe ribadiscono l’importanza del confronto e del reciproco riconoscimento.
Perché è importante dialogare
Sicuramente quanto descritto non è che una piccola goccia e non salverà il mondo: però è certo che esiste una grammatica del dialogo che sconsiglia un approccio aggressivo e rivendicativo. Occorre prendere atto della realtà che ci circonda, pensare a quanto si è costruito negli ultimi ottanta anni a livello di scambio interreligioso, di conoscenza del mondo ebraico e della sua cultura: un atteggiamento più empatico da parte di chi ci rappresenta forse renderebbe i nostri interlocutori più disponibili ad ascoltare anche le nostre argomentazioni. Penso sia giusto spiegare le ragioni di Israele e, soprattutto, raccontarne la realtà plurale e variegata ma occorre anche conoscere la storia e la cultura del mondo palestinese, per capire la sofferenza di chi sente di essere vittima di un sopruso e di chi vive in condizioni miserevoli e nel terrore. Il dialogo è possibile.