di Roberto Battistini
Le lotte delle donne ebree nella fondazione dei movimenti femministi degli Stati Uniti d’America
All’avvio del secondo mandato del Presidente Donald Trump i timori dei movimenti femministi statunitensi sono diventati realtà. In una recente intervista, la direttrice della divisione Women Rights di Human Right Warch, Macarena Sáez, elenca i possibili ambiti in cui il paese perderà facilmente la libertà conquistata, con effetti che interesseranno le restrizioni al diritto di aborto, all’equità stipendiali delle donne, al diritto delle undocuments women e delle loro famiglie, ai costi sanitari. Azioni che non fanno altro che avere catastrofici impatti economici sulle classi sociali più deboli, toccando ambiti come le stesse campagne vaccinali, ad esempio nel caso del virus HPV, origine del cancro alla cervice molto diffusa tra le donne afroamericane Questa inversione sui diritti umani acquisiti, delineata già dalle prime misure di Trump nei primi giorni di insediamento, con l’applicazione dell’executive power, diventa paradigma mondiale proprio perché ha origine nel paese che può vantare la più lunga tradizione di lotta dei diritti delle donne e la solida affermazione dei movimenti femministi, a partire dai contributi dati dalle grandi migrazioni dall’Europa. Nella storia del movimento femminista il ruolo fondativo delle donne ebree è rilevante, distinguendosi sin dall’ ottocento, nell’aver saputo trasformare dall’interno le comunità ebraiche, aprendone i limiti formali e rivisitando il ruolo della donna nella famiglia, ma anche nell’impattare sull’intera società americana stessa, grazie al loro contributo nelle principali riforme sociali e nei movimenti socialisti stessi. Un valore storico che è stato ridimensionato da un’attenta operazione di cancellazione della memoria da parte delle femministe non ebree, sin dalle fondamenta del movimento. Laddove diverse donne ebree ebbero modo di presenziare alla Convenzione denominata Seneca Falls, 18 – 20 luglio 1848, in cui la Declaration of Sentiments equiparava per la prima volta i diritti delle donne a quelli degli uomini, compreso il diritto al voto, l’avversione antiebraica già agiva. Non ne fu esente l’emblematica Ernestine Rose (1810-1892). Nata in uno shtetl in Polonia, figlia di un rabbino, divenne presto una leader nella lotta per riformare gli atti sulla proprietà delle donne sposate e per la propaganda anti-schiavitù, arrivando a presentare a Worcester, Massachusetts, la controversa risoluzione che chiedeva “l’uguaglianza politica, legale e sociale delle donne con l’uomo”. Da fervente pacifista e femminista qual era, dovette prendere posizione netta contro l’antisemitismo, avvertendone la presenza nella stessa cerchia culturale progressista che frequentava. Rose, convinta che le donne avessero un interesse particolare nelle crociate per la pace e per il dialogo, vedeva il suo lavoro a favore dei diritti delle donne e contro l’antisemitismo come evidente dimostrazione delle “interrelazioni tra ebrei e non ebrei, neri e bianchi, uomini e donne“, in una lettura particolarmente innovativa dei meccanismi etnografici. E fu proprio questo suo approccio progressista che le permise, non a caso, di essere nominata come una delle più importanti leader per i diritti delle donne nella storia.
Accanto ad Ernestine Rose si trova Maud Nathan (1862-1946), sefardita che seppe conquistarsi con determinazione un ruolo di leader nel movimento pro-suffragio. Partita dalle basi del suo lavoro all’interno del New York Consumers League, ebbe modo di constatare direttamente come i legislatori ignorassero del tutto il punto di vista delle donne, prive di uno status politico, in particolare delle immigrate, principalmente ebree. Nathan, che possedeva una brillante mente tattica, seppe però trovare gli strumenti per contrastare questo fenomeno e creò una rete da lei denominata molto esplicitamente Society woman in politics, che sfruttò per condurre la propria lotta per la tutela legale delle donne immigrate. Le sue doti progettuali, la sua capacità di comunicare, erano talmente originali ed eversive da non passare inosservate: nel suo progetto 24 ore, una campagna informativa condotta per strada a bordo di automobili, riusciva ad organizzare dibattiti in pubblico simultanei in diversi punti della città e a distribuire attraenti volantini sul suffragio insieme a monete lanciate alla folla. Tra l’altro uno dei suoi principi era la demolizione degli stereotipi sulle donne attiviste, a quei tempi in genere rappresentate dall’immagine di donne dai capelli corti, aggressive, dai modi “maschili” e vestite con i pantaloni, a cui lei rispondeva con una sua estetica ricercata, fatta di abiti sontuosi particolarmente colorati e vivaci, indossati soprattutto durante conferenze e discorsi in pubblico.
Rose e Nathan sono due esempi di come le donne immigrate ebree, in questo periodo, stessero dando un grande supporto alla causa del suffragio, ben più di altre comunità etniche e anche più delle donne native statunitensi, ma lo screditamento dell’operato ebraico, senza dover ricordare che il Ku Klux Klan negli anni del proibizionismo prendeva come bersagli neri, ebrei e cattolici, non permise loro di far riconoscere a pieno titolo il proprio contributo sociale. La stessa Elizabeth Cady Stanton, fondatrice della convention Seneca Falls, nonostante le storiche amicizie con ebree, arrivò ad introdurre una mozione alla Convention del 1885 in cui si evidenziava come “il dogma incorporato nel credo ebraico fosse contrario alla legge di Dio, così come rivelata in natura nei precetti cristologici. La mozione venne respinta ma, con il trascorrere del tempo, l’antisemitismo seppe solo evitare esplicitazioni così dirette, a favore invece di più subdole misure indirette, quali ad esempio l’allontanamento dal movimento di alcune donne ebree da parte della terza presidentessa, Carrie Chapman Catt, viste come l’incarnazione di un rischio alla democrazia statunitense, generato dal pericoloso voto di ignoranti straniere. I nuovi paradigmi antisemiti cambiavano solo forma, come ebbe modo di constatare facilmente Sadie American (1862-1940) ad esempio nel distacco e nel silenzio delle compagne di lotta non ebree di fronte al massacro, agli stupri e alle torture del pogrom di Kishinev, capitale della provincia di Bessarabia, nel 1903. Il massacro, nato sulla scia del falso mito delle uccisioni rituali ebraiche, con 49 morti, un elevato numero di donne violentate e la distruzione di 1.500 abitazioni, infatti è riconosciuto oggi come una sorta di linfonodo sentinella della brutalità dell’imperialismo russo agli ebrei. Secondo Steven J. Zipperstein, docente di storia ebraica alla Stanford University, la violenza di tale pogrom rappresenta la metafora della catastrofe che avrebbe poi impattato nel Ventesimo secolo sulla vita di tutti gli ebrei. E il silenzio su questi gravi segni premonitori ne fu complice.
Occorre ricordare però che proprio il clima di generale avversione verso il femminismo ebraico costrinse obtorto collo le attiviste ebree ad orientare la loro lotta su temi più ampi, come il lavoro e la sessualità. Si incontrano così Pauline Newman (1890-1926), Rose Pesotta (1896-1965), e Fannia Cohn (1885-1962), sindacaliste presso l’International Ladies Garment Worker Union, che spesero decenni nel tentativo di alzare i salari e la condizione lavorativa delle operaie, ponendosi spesso in contrasto con gli stessi leader del sindacato (ovviamente uomini). La libertà sessuale fu uno dei temi che l’anarchica Emma Goldman (1869-1940) sollevò, profetizzando come la spinta passata per il suffragio e i diritti politici non fosse altro che un’imitazione dei modelli maschili, e non un loro smantellamento, per superare la sottomissione all’uomo. La Goldman, infatti, biasimava le suffragette per non essere state in grado di colpire i lati oscuri del matrimonio, da lei considerati completamente inconciliabili con la vera essenza amorosa della vita di coppia, e per non aver fatto nulla sul diritto femminile al controllo delle nascite, elemento fondamentale per la stessa Goldman per la liberazione delle donne. Un ambito, infine, che presentò il totale primato di attivismo delle donne ebree fu quello della lotta contro la prostituzione forzata, la “schiavitù bianca”, diventato uno degli obiettivi principali del National Council of Jewish Women (NCJW), la più importante organizzazione femminista ebraica, presente oggi sia negli USA che in Israele. I suoi programmi di allora comprendevano case protette, orientamento al ricollocamento lavorativo delle donne e una campagna mondiale di prevenzione. Il successo di questo lavoro diede all’organizzazione un ingresso a pieno titolo nel movimento delle donne laiche, cercando di superare il vincolo dell’identità etnico-religiosa. L’operato del NCJW infatti crebbe negli anni al punto da essere invitata nel 1962 alla Commissione sullo status delle donne del presidente John F. Kennedy, che permise allo stesso NCJW di trovare una convergenza con il movimento femminista nazionale sulle emergenti tematiche della discriminazione di genere nell’occupazione, della disuguaglianza legale e della mancanza di assistenza all’infanzia, fino ad arrivare nel 1970 in cui l’uguaglianza delle donne era diventato elemento centrale della NCJW stessa. Finisce in quel momento un’era controversa e sofferta del movimento femminista per dare voce, a partire dal libro edito nel 1963 di Betty Friedan, The Feminine Mystique, alla nuova generazione di femministe.
Un’evoluzione che non sarebbe stata possibile senza la perseveranza delle fondatrici ebree nella lotta per i diritti di base delle donne e nel resistere alle varie dinamiche antisemite interne al movimento femminista ed esterne, radicate in schemi culturali purtroppo presenti ancora oggi. Lo stesso fenomeno, dopo tutto, per cui i movimenti femministi internazionali nel 2024 non hanno speso parole di dolore, di denuncia e di vicinanza alle donne israeliane vittime di violenza del 7 ottobre. La ciclicità della storia è tangibile, se l’antisemitismo continua a vivere è anche per via delle sue profonde radici culturali. Su questo lato c’è ancora tanto da lavorare, ma le femministe ebree del passato mostrano uno spaccato sociale ed un esempio indelebile di tenacia e resistenza che, nella loro sfida ai confini sociali del tempo, devono obbligare una riflessione profonda sul presente.
L’articolo è frutto della rielaborazioni di diversi contenuti online, in prevalenza tratti dal portale Jewish Woman Archive (JWA) https://jwa.org/.
Riferimenti
Feminism in the United States | Jewish Women’s Archive