DUE INTERVISTE: IL RUOLO DEI MODERATI

Interviste a cura di Paola Abbina

 

DANIEL HASSON

Daniel Hasson è Direttore Esecutivo del Jerusalem Intercultural Center

Dal 7 ottobre tutto è cambiato, è cambiato per gli israeliani, per gli ebrei, e forse per il mondo intero: sono cambiati i rapporti fra le persone, la percezione dell’altro è diventata “cosa sospetta”, ci sono proteste ovunque con slogan prefabbricati, manifestazioni di massa, rivolte universitarie e un aumento esponenziale degli episodi di intolleranza e di antisemitismo.  

Come vive nel suo lavoro quotidiano questa situazione?  

Il Centro Interculturale di Gerusalemme (JICC) è per molti versi un microcosmo: circa la metà del personale è composto da arabi musulmani di Gerusalemme est

residenti e l’altra metà da ebrei israeliani. I nostri membri del consiglio sono anche i rappresentanti delle diverse realtà della città, con leader ebrei, cristiani e musulmani provenienti da tutto lo spettro politico.

Quando è scoppiata la guerra, il personale ha continuato a comunicare e relazionarsi al suo interno, per lo più su base individuale. Abbiamo condiviso il dolore l’uno dell’altro al livello più umano possibile. Durante quei primi giorni, è stato piuttosto difficile per noi, a livello emotivo, incontrarci come squadra, ma nel giro di circa due settimane siamo riusciti a convocare una riunione di leadership. Abbiamo pianto insieme, ci siamo sostenuti a vicenda e abbiamo iniziato a lavorare per il “bene comune”. Quel “bene comune” era da una parte impedire che la violenza si diffondesse a Gerusalemme e dall’altra garantire che la popolazione– ebrei o arabi – potesse condurre la propria vita indipendentemente dalla guerra e nel modo più normale possibile.

Quale è lo status del dialogo interreligioso e interculturale oggi?   
Cosa è cambiato dal 7 ottobre e forse dall’insediamento dell’ultimo governo? Ci sono moltissime iniziative individuali e di gruppo nella sola Gerusalemme che stanno portando avanti il dialogo interreligioso e interculturale.

Purtroppo, nel corso dei suoi 3000 anni di storia la nostra città ha conosciuto diverse ondate di violenza politica, motivate soprattutto da ragioni religiose; è impossibile spezzare lo spirito di un popolo con la forza. Negli ultimi anni, il lavoro della JICC nel contesto del dialogo interculturale si è concentrato sulla Città Vecchia, dove le tensioni sono spesso alle stelle. Sebbene nei media si senta parlare soprattutto di aggressioni sul Monte del Tempio e nei luoghi santi in particolare nei giorni festivi, esistono purtroppo molte altre forme di violenza.
Tristemente, il 2023 è stato un anno nero e davvero drammatico per le aggressioni commesse da ebrei contro pellegrini, turisti, clero e cristiani. Iniziando dalla vandalizzazione del cimitero anglicano sul monte Sion e finendo con l’episodio avvenuto nella Sala dell’Ultima Cena dove alcuni teppisti hanno infranto le antiche finestre della sala, possiamo dire che quasi ogni mese e mezzo si è verificato un atto di violenza; e purtroppo sono anche aumentati gli episodi di ebrei che sputano contro fedeli e simboli cristiani.

Non si riesce a tracciare una linea diretta tra l’attuale governo e questo aumento degli attacchi; tuttavia, il clima nella Città Vecchia e sul Monte Sion è certamente quello in cui gli aggressori ebrei sono incoraggiati e disposti a commettere atti che ancora due anni fa non avrebbero fatto. Questo riflette il clima politico in cui ci troviamo.

Per fortuna questi episodi sono stati condannati dai leader religiosi, come il rabbino capo di Gerusalemme, dai leader politici, tra cui il Primo Ministro, il Ministro della Sicurezza Nazionale e altri, e dalla polizia israeliana.
Tuttavia, dallo scoppio della guerra la Città Vecchia e il Monte Sion sono quasi vuoti e di conseguenza la frequenza e la gravità degli attacchi sono molto diminuiti.

Vedremo cosa succederà quando la città tornerà alla “normalità”.

In occasione 35ma Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha avuto parole molto dure nei confronti di alcune esternazioni di eminenti rappresentanti del mondo cattolico, che avrebbero provocato un allontanamento fra le parti in causa.  
Che ruolo può avere la chiesa per porre fine alla guerra, che non sia solo un appello alla pace o al silenzio delle armi visto che sia una pace e sia una tregua si fanno in due? 

I leader religiosi nel mondo hanno il loro ruolo da svolgere nel chiedere la fine della guerra, il ritorno degli ostaggi e una preghiera affinché le persone di tutte le fedi possano porre fine all’odio e vivere in pace e sicurezza gli uni accanto agli altri. Come civili, siamo a conoscenza solo delle dichiarazioni pubbliche rilasciate dai leader religiosi; non siamo consapevoli degli sforzi quotidiani e incessanti che i leader religiosi e le loro istituzioni stanno compiendo per prevenire la perdita di vite umane, da entrambe le parti. La leadership cristiana in generale è considerata solidale sia dal mondo ebraico che da quella palestinese. Questa è il filo rosso su cui devono camminare i capi di tutte le principali istituzioni cristiane, ma immagino che la maggior parte dei colloqui avvenga a porte chiuse.

Dal 7 ottobre in poi, per tutti questi mesi abbiamo visto che il mondo si è schierato, a torto o a ragione, dalla parte dei “palestinesi”. Ma chi si fa garante di Israele per aiutarlo e in una nuova fase post-bellica?  

A mio avviso, il garante di Israele deve essere innanzitutto la società israeliana stessa. Siamo ormai a oltre sei mesi in una guerra aspra con oltre 130 ostaggi ancora detenuti, decine di migliaia di morti, molte migliaia di israeliani e milioni di abitanti di Gaza sfollati, eppure il governo israeliano deve ancora mostrare una vera leadership. Sono state la società civile e la comunità imprenditoriale locale a far sì che il nostro Paese continuasse a funzionare. La mia speranza è che da questa straordinaria mobilitazione di leader civici e imprenditoriali emerga un nuovo quadro politico. Questa nuova leadership dovrà sostenere gli alleati di Israele all’estero e lavorare per ridurre la potentissima e preoccupante recrudescenza dell’antisemitismo.

 

DON GIULIANO SAVINA

 Don Giuliano Savina è stato allievo del Cardinal Martini.

Attualmente è Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana.

L’abbiamo incontrato a Gerusalemme, dove ha passato qualche giorno in forma privata. Abbiamo così avuto il piacere di discorrere sulla situazione attuale.

Cosa ha rappresentato secondo Lei il 7 ottobre per gli ebrei della diaspora, per gli ebrei dello Stato di Israele e per i cittadini dello stato ebraico tutto?

Il 7 ottobre 2023 è stato definito l’11 settembre per Israele. Un’azione terroristica di Hamas. Ho avuto modo durante la Settimana Santa cristiana di andare in Israele, grazie all’Associazione Italia-Israele di Milano, di incontrare donne e uomini comuni, rabbini e laici, di ascoltare da loro quello che è accaduto e sta accadendo. Ho avuto modo di visitare i luoghi dei fatti ed ascoltare, nell’hotel in cui sono stato, chi è da sei mesi lontano da casa. Ho avuto modo di abitare la terra e respirare su quella terra. Ho avuto modo di sentire direttamente e lasciarmi toccare e ferire. Ho potuto incontrare e conoscere realtà come la Jerusalem Intercultural Center e i progetti che vengono realizzati per l’inclusione sociale e non solo. Ho incontrato ed ascoltato i cristiani del Vicariato di San Giacomo che è parte integrante del Patriarcato latino di Gerusalemme che riunisce i cattolici di lingua ebraica che vivono in Israele, quelli appartenenti al popolo ebraico e quelli provenienti da altri paesi, tra cui un certo numero di migranti e cristiani locali. Ho avuto modo di incontrare, dopo la messa del giovedì Santo al Santo Sepolcro, il parroco di Gaza.

È importante e fondamentale capire il 7 ottobre e sentire in profondità ciò che è stato ed è per un ebreo questo giorno, prima di fare qualsiasi altra considerazione. La portata di questi fatti è devastante, in particolare quello di non sentirsi al sicuro in casa propria, di non sentirsi protetto e di vivere nella più totale paura. Ecco, ho visto la paura in faccia. Questa paura rimanda nel pensiero e nei sentimenti di un ebreo ad una storia millenaria di persecuzione e soprattutto con la netta consapevolezza di come tutto questo non sia bastato: è ancora vivo. Questo è il punto che non trova soluzione.

È stato molto importante per me stare lì e capire, per poter confermare quanto sia necessaria e urgente la conoscenza corretta dell’ebraismo, l’uso corretto del vocabolario, delle parole, dei concetti, del pensiero e la conoscenza della storia. L’insegnamento del disprezzo sembra aver ritrovato la sua diabolica ragione.

Ho avuto anche modo di ascoltare la forte e radicale critica, senza se e senza ma, nei confronti della politica del governo da parte degli ebrei che ho incontrato: intellettuali autorevoli della portata di Sergio della Pergola, di rav Ascoli e rav Epstein che non nascondono, anzi, come la politica deve cambiare subito perché così non se ne esce e non va bene.

Sono stato a Tel Aviv nella piazza adiacente al Museo di Arte Contemporanea dove i parenti dei rapiti gridano la loro disperazione e tengono viva la memoria con il narrare; sono stato nelle tende predisposte all’accoglienza dove i fatti accaduti sono il dramma di una voragine che non ha fine, perché più il tempo passa, più non si sa dove siano gli ostaggi. In quella piazza è stato predisposto un assetto interattivo per permettere di lasciarsi coinvolgere nella situazione reale, come un lungo tavolo pronto per shabbat o per il seder di Pesach.

E poi c’è l’altra faccia della medaglia, come possa essere davvero possibile che il popolo palestinese non abbia una classe dirigente capace di prendere le distanze da Hamas e da qualsiasi forma terroristica. La paura e il terrore sembrano avere la vittoria in questo momento e questo vuol dire guerra, e questo vuol dire decine di migliaia di vittime innocenti: non va bene! I rapiti devono tornare a casa loro e la guerra deve finire, il negoziato deve procedere.

Lei conosce bene e da lungo tempo Israele.  Come ha trovato il Paese del post 7 ottobre?

Ho avuto modo negli anni passati di essere formato alla fede da un Gesuita che nella Terra del Santo ha trascorso più di 37 anni e che recentemente è tornato nel seno di Abramo, p. Francesco Rossi de Gasperis SJ (Compagnia di Gesù). Con lui ho imparato a leggere la Bibbia sulla terra dal Neghev al Golan passando da Hebron e dalla Samaria, sostando a Nazareth, ma in particolare a Meghiddo, e poi il lago di Tiberiade (o mare di Galilea) fino a Banias e Dan per capire e vivere il Santo Sepolcro. Questa terra per me è casa, è vita, è respiro, è “da dove vengo, perché qui sono nato”. Ho applicato ciò che il Cardinal Martini mi ha insegnato: intercedere, intercedere tra le lacrime, con il cuore contrito, con lo spirito umiliato e chiedendo allo Spirito la sua potenza perché tocchi i cuori, smuova le coscienze e tempri la volontà ad azioni di negoziato.

Quali prospettive di pace vede? Con il peso della storia, di pogrom, della shoà e di millenni di persecuzioni, dal 7 ottobre Israele vive, per la prima volta dal 1948, la paura concreta di essere spazzato via. Cosa vuol dire questa paura per il mondo occidentale?  

Domenica 14 aprile sono stato a Bologna perché la Fondazione delle scienze religiose ha affrontato il tema della “La coscienza ebraica della Chiesa e Gesù – A proposito di Jules Isaac”.

Il mondo occidentale ha estremo bisogno di prendere sul serio le indicazioni di Jules grazie al quale la Chiesa, incontrandolo, ha avviato un processo di vera e propria teshuvah (pentimento, redenzione) cristiana per raggiungere e coinvolgere non solo gli addetti ai lavori, ma direttamente la gente. La formazione della coscienza cristiana ha fame e sete di questa teshuvah.

La Conferenza Episcopale Italiana insieme con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane hanno attivato un processo di corretta conoscenza dell’ebraismo che in questo momento viene promosso su tutto il territorio italiano[1]. Si parte da qui: da una formazione permanente. Senza i fondamentali non si va da nessuna parte, anzi senza i fondamentali sembra che tutto il cammino compiuto dalla scrittura di Nostra Aetate ad oggi sembra non esserci stato.

Ma non solo. Le indicazioni di Jules sono urgenti, necessarie, importanti per non arrivare ad usare dei termini impropri che generano distorsioni mostruose e pericolose. Distorsioni che deviano in processi devastanti e di cecità totale.

[1] https://unedi.chiesacattolica.it/2023/03/15/16-schede-per-conoscere-lebraismo/