di Giorgio Berruto
È il 1838 quando il ventiduenne David Levi reagisce agli insulti antisemiti di uno svizzero sfidandolo. Si accende una lotta a mani nude per le strade di Pisa, dove Levi risiedeva come studente; poi la fuga. A raccontare l’episodio lo stesso protagonista molti anni più tardi, quando è ormai un noto politico e intellettuale dell’Italia unita. La biografia intellettuale di Levi, frutto del lavoro di ricerca di Alessandro Grazi, è il ritratto di un europeo che vive da protagonista il proprio secolo, a cui appartiene per intero anche biograficamente (1816-1898). I feticci e le speranze che ne segnano il percorso sono illuminismo e romanticismo, nazionalismo e cosmopolitismo, rivoluzione, riflusso e disillusione.
Un figlio del secolo
David Levi nasce a Chieri in una famiglia benestante, attenta a conservare le tradizioni ebraiche ma anche integrata nel tessuto cittadino e regionale. A quanto risulta di carattere impulsivo in giovane età – “piccolo demone” è l’espressione con cui viene definito entro le mura domestiche – dopo il bar mitzvà entra al Collegio Foa di Vercelli, fucina dell’intellighenzia ebraica piemontese in cui educazione ebraica e patriottica costituiscono un tutt’uno. Poiché in Piemonte agli ebrei è proibito iscriversi all’università, Levi dopo il collegio si trasferisce prima a Parma e poi a Pisa, dove fa la scelta della vita attiva dando concretezza a quegli ideali illuministici portati in Italia dalle armate napoleoniche che aveva respirato in famiglia fin dall’infanzia. Aderisce alla massoneria e al sansimonismo, una forma di socialismo che sarà condannata senza appello pochi anni più tardi da Marx come “utopista”. Conosce Mazzini ed entra a far parte della “Giovine Italia”, ricoprendo anche un ruolo importante per il lancio della spedizione dei fratelli Bandiera, risoltasi in un disastro come peraltro tutti i tentativi insurrezionali mazziniani. A fronte dei ripetuti fallimenti Levi matura una posizione critica di Mazzini che porta a contrasti sulla questione se collaborare o no con il re di Sardegna Carlo Alberto. Per Levi – come per Garibaldi – l’appoggio al re è l’unico modo realistico per dare alle idee mazziniane la possibilità di esercitare una certa influenza e partecipare al progetto di unificazione politica della penisola, a costo naturalmente di rinunciare all’ideale repubblicano. Nell’anno delle rivoluzioni 1848 Levi fa il suo debutto politico con un discorso di fronte al re in cui perora l’emancipazione delle minoranze valdese ed ebraica in Piemonte – coronato, come noto, da successo. Vive gli anni del Risorgimento da protagonista, nella convinzione che la strada per conquistare agli ebrei italiani una piena emancipazione civile converga con quella verso l’unità nazionale. Nel 1861 è eletto nel primo parlamento dell’Italia unita nelle file di quella che viene definita sinistra storica, dimettendosi però tre anni più tardi per protesta contro il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Nuovamente eletto dopo l’annessione di Roma all’Italia, si dimette per la seconda volta nel 1880. Nell’ultimo periodo intensifica il lavoro di scrittura, già intrapreso negli anni precedenti, con drammi storici, saggi politici e filosofici, testi autobiografici a cui va aggiunta una commedia inedita, Il Mistero delle Tre Melarancie, scoperta da Grazi nell’archivio privato di Levi conservato presso il museo nazionale del Risorgimento di Torino e pubblicata per la prima volta in appendice al volume.
Ebraismo e modernità
Una serie di studi recenti focalizzati su storie individuali – per esempio quella del segretario di Cavour Isacco Artom – mostra come numerosi ebrei protagonisti in epoca risorgimentale abbiano mantenuto un forte attaccamento verso la propria eredità ebraica nonostante l’abbandono di sinagoga e centri comunitari. In alcuni casi, come quello di David Levi, la scelta è accompagnata da una riflessione sul ruolo dell’ebraismo nella modernità e dall’elaborazione di una identità ebraica laica. Levi però non imbocca la strada della conversione e non rinuncia all’identità ebraica né nello spazio privato né – e questo merita di essere sottolineato – nello spazio pubblico. La ricerca su vicende umane e intellettuali come queste consente di mettere in discussione il dualismo, fino a non molti anni fa dominante negli studi sull’Ottocento ebraico, tra il rifiuto totale dell’eredità ebraica con la conseguente piena assimilazione, da una parte, e l’adattamento entro nuove forme di ortodossia e tradizionalismo dall’altra. Questo approccio è oggi considerato semplicistico e perciò inadeguato. Storie come quella di Levi coprono infatti uno spettro di possibilità assai più ampio e mostrano che l’equivalenza tra secolarizzazione e assimilazione (per non dire agnosticismo o ateismo) semplicemente non regge alla prova dei documenti.
A questo va aggiunta una riflessione critica sull’uso della categoria di assimilazione, termine polemico spesso impugnato ieri come oggi nel dibattito politico, con la conseguenza frequente di generare confusione, ma di nullo valore per la ricerca storica. Come l’etichetta di “identità”, “assimilazione” dice poco o nulla di coloro ai quali viene applicata; dice invece molto di chi la usa. È funzionale non a definire ma a definirsi, o meglio ad affermare come si vorrebbe essere (rappresentati). La realtà storica e anche quella a noi contemporanea però si sottrae, rimane irriducibilmente frastagliata, piena di zone d’ombra e sfumature. La parabola di David Levi, come altre vicende ebraiche italiane dell’Ottocento, se guardata da vicino mostra l’inadeguatezza della categoria di assimilazione e al contrario una pluralità di percorsi di integrazione voluta e non voluta, riuscita e non riuscita in modi e tempi diversi. Nel caso della famiglia di Levi un’integrazione che comincia almeno dalla fine del Settecento, al tempo della prima discesa di Napoleone in Italia durante la quale il nonno diventa sindaco di Chieri e fonda un’industria tessile.
A questo discorso si intreccia l’interpretazione da parte di Levi del ruolo dell’ebraismo nella modernità. Italianità e ebraicità non sono considerate due dimensioni in potenziale o attuale opposizione, non “due razze in antica tenzone” come per Umberto Saba, che rappresenta d’altra parte un secolo diverso, il Novecento. Per Levi l’emancipazione dell’Italia da subalternità politica e frammentazione regionale con l’unità e l’emancipazione degli ebrei costituiscono un unico obiettivo. Secolarizzazione è il termine medio che unisce i due poli permettendo di conservare un forte attaccamento all’identità ebraica rinunciando allo stesso tempo all’ebraismo della tradizione fatto di vita comunitaria e ortoprassi. La secolarizzazione per Levi non significa rifiuto di ogni dimensione religiosa ma traduzione di quelli che vengono identificati come i valori fondamentali dell’ebraismo nell’ambito di una “religione dell’umanità”. Non più dunque i riti particolaristici del ghetto, ma universalismo e cosmopolitismo sulla scorta del messaggio dei profeti biblici. È qui evidente una rilettura dell’eredità ebraica alla luce dell’illuminismo, sebbene Levi rimanga convinto che sia viceversa l’illuminismo a fondarsi sui valori più profondi della tradizione ebraica. Quello che è certo è che la riconduzione a valori ebraici delle idee emancipatrici e cosmopolite del suo tempo permette a Levi di mantenere saldo il legame con l’ebraismo in un’ottica compiutamente secolare.
Alessandro Grazi, Prophet of Renewal. David Levi: a Jewish Freemason and Saint-Simonian in Nineteenth-century Italy, Brill, Leiden-Boston 2022, 316 pp.