Riflessioni di un giovane al ritorno dagli Stati Generali dell’UCEI

di Joseph Jona Falco

A molti ragazzi sarà capitato di trascorrere un bel weekend a Roma, magari per andare a trovare gli amici conosciuti ai campeggi o per far visita ai cugini romani. Un matrimonio? Una vacanza di famiglia? Una gita scolastica per passare qualche ora in uno degli splendidi musei della nostra capitale? Possono essere infiniti i motivi per salire su un Frecciarossa e trascorrere qualche ora a Roma. Il mio era molto semplice: avevo deciso di andare a rappresentare l’Hashomer Hatzair agli Stati Generali dell’UCEI. Perché credo che partecipare attivamente ad appuntamenti come questi sia fondamentale. La direzione dell’ebraismo italiano va stabilita tutte e tutti insieme, non ci si può lamentare aspettando seduti di vedere come va.

 

Partiamo però dal principio.

L’UCEI ha organizzato per quest’anno gli Stati Generali, scegliendo un tema specifico: “L’educazione ebraica in Italia”. Qualcuno si è, forse giustamente, lamentato per questo approccio un po’ limitante, ma non si può negare che il tema sia di fondamentale importanza. Certo, ci sono molti altri temi urgenti che meriterebbero di essere discussi e mi auguro che non si aspettino i prossimi Stati Generali per affrontarli; ciò che queste venticinque ore di incontro ci hanno dimostrato è sicuramente che è necessario fare dei passi avanti nell’ambito della comunicazione (interna ed esterna all’ebraismo italiano).

Gli Stati Generali sono iniziati con un’interessante apertura dei lavori con illustri ospiti; in particolare il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha dato, a mio avviso, uno spunto fondamentale per tutte le discussioni che si sono susseguite: Molinari ha parlato del valore della kvutza, del gruppo, come elemento chiave per l’educazione. Le due giornate si sono poi sviluppate su quattro filoni: educazione tramite le scuole ebraiche italiane; formazione rabbinica e corsi di studi ebraici superiori; formazione dell’identità ebraica tramite movimenti giovanili e infine percorsi di educazione e formazione informale. Ero stato chiamato per intervenire a proposito dell’educazione proposta dai movimenti giovanili, ma in quanto uno dei pochissimi giovani presenti all’intero convegno, ho sentito la necessità di intervenire anche su diversi altri temi. In particolare, ho avuto l’occasione di discutere della situazione delle scuole ebraiche italiane. Per la prima volta ho sentito parlare allo stesso tavolo rappresentanti delle sette scuole ebraiche italiane: tre di Milano, due di Roma, una di Torino e una di Trieste. Sono emerse le criticità delle nostre scuole (mancanza di network, insoddisfacente preparazione degli studenti in lingua ebraica, diminuzione delle iscrizioni, problemi di violenza interni alla scuola, criticità nel rapporto con i genitori…) ma anche le speranze e i punti di forza. Ci siamo tutti convinti dell’enorme opportunità che un maggiore coordinamento porterebbe; abbiamo capito che il lavoro delle scuole non si può limitare alla formazione nozionistica (per quanto anche quella sia importante), ma deve puntare su un’educazione a tutto tondo, trasversale. Serve un’alleanza della scuola con tutti gli altri attori: studenti, genitori, movimenti giovanili, rabbanim, personale educativo e chiunque altro senta di avere un impatto sull’educazione e sulla formazione dei ragazzi e delle ragazze. Quando parlo di alleanza intendo un coordinamento e degli incontri, ma soprattutto il comprendere di stare contribuendo tutti allo stesso scopo. La formazione delle nuove generazioni di ebrei ed ebree non si limita all’educazione di una nuova generazione, ma ha la responsabilità di assicurare un futuro per l’ebraismo italiano intero. Infatti ciò che contraddistingue le nostre scuole è l’essere scuole di una comunità, scuole che puntano a dare un’educazione, un’identità basata su precisi valori. Questo non è qualcosa che si può delegare al solo corpo docente. Pertanto, perché la scuola raggiunga il suo obiettivo, è imprescindibile la collaborazione di tutte le parti. La scuola deve però garantire un livello alto di preparazione (in tutti gli ambiti) e di attenzione allo studente. L’ambiente scolastico deve essere sano, stimolante, attento e rispettoso delle necessità collettive e, per quanto possibile, individuali.

Durante gli Stati Generali non se n’è parlato, ma credo che la base su cui tutti gli altri attori lavorano sia data dalla famiglia. La storia familiare, le tradizioni, l’esperienza condivisa, ma anche le discussioni a tavola danno una forte traiettoria per lo sviluppo dei valori e dell’identità personale. Su questi pilastri si può costruire tutto il resto e ogni contributo è necessario. L’obiettivo da avere in mente non può essere prestabilito, sarà il ragazzo o la ragazza a fare una sintesi di tutta l’opera e, se l’educazione e la formazione sarà stata all’altezza, questo non accadrà solo una volta, ma risulterà dinamico e frutto di una ripetuta analisi critica di sé stessi.Com’è emerso più volte nelle discussioni, una forte educazione ebraica prevede la creazione di una forte identità, di un senso di appartenenza e di comunità, ma allo stesso tempo a mio avviso la capacità di farsi domande, di avere uno spirito critico e di agire secondo il proprio pensiero, senza sottrarsi però al confronto. E’ molto importante che il confronto non avvenga solo tra membri della comunità, ma si estenda alle varie anime della società di cui facciamo parte: si parla di educare giovani ebrei italiani, responsabili di dare un contributo allo sviluppo dell’ebraismo e contemporaneamente della società di cui fanno parte. L’educazione ebraica infatti passa attraverso la discussione, il dibattito, il ragionamento anche collettivo. Ed ecco che si torna al punto toccato da Molinari: la kvutza, il gruppo come elemento di confronto e di crescita. Questo è l’elemento su cui si basa il metodo educativo dell’Hashomer Hatzair e degli altri movimenti giovanili. Prendere decisioni insieme, dopo lunghe discussioni, non è una perdita di tempo, è un approccio, un insegnamento e un metodo intrinsecamente ebraico e democratico. Formare ed educare un giovane ebreo o una giovane ebrea consiste prima di tutto nel formare una persona. Se la scuola, la famiglia, i movimenti giovanili, i Talmudè Torà puntano a formare un cittadino rispettoso e consapevole, un membro attivo della società e della comunità ebraica, una persona capace di fare domande e di ascoltare punti di vista diversi dal proprio e ci riescono, possono ritenersi “usciti d’obbligo”. Vi starete magari chiedendo se tutto questo è stato detto a Roma. Non proprio… questa è l’idea che mi sono fatto mentre ascoltavo e discutevo con i principali esponenti delle istituzioni che hanno a che fare con l’educazione ebraica. Molto però è stato detto sul divario di opportunità fra le diverse comunità: dove non c’è una scuola ebraica non ci può essere educazione ebraica? Certo che ci può essere e c’è, ma se manca la scuola è necessaria un’opera più forte da parte degli altri attori. Ecco, quindi, l’impegno di maggior azione e coinvolgimento che noi come rappresentanti dei movimenti giovanili ci siamo presi. Siamo infatti convinti che la strategia migliore per coinvolgere e avere l’occasione di trasmettere l’educazione ebraica sia fare sentire i ragazzi parte della grande comunità, nel nostro caso quella dell’Hashomer, e non solo della comunità locale di provenienza. C’è tanto lavoro da fare, progetti da pensare, finanziamenti da trovare, metodi da sperimentare e collaborazioni da attuare: ora rimbocchiamoci le maniche e buon lavoro a tutte e tutti noi!

 

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