di Beppe Segre

Il coraggio di agire e l’impegno a raccontare

Mia figlia possiede un pastore tedesco, e, quello è un cane, non avrà da risentirsi dall’attribuzione della razza “pastore tedesco”, ma parlare di razza per le persone … come si può?” soleva dire Elena Ottolenghi, una donna straordinaria, testimone e memoria della Shoah, che ha dedicato la sua vita all’impegno per le istituzioni ebraiche, a combattere il razzismo in ogni sua forma, alla formazione dei giovani. A lei non mancava certo l’ironia e l’ironia è una dote preziosa a contrastare il razzismo, dimostrandone la stupidità.

Regi Decreti 1938

Nata nel 1929, aveva 9 anni ed aveva concluso con successo la terza elementare quando il Regime Fascista promulgò – approvandole a scrutinio segreto ed all’unanimità: 351 votano a favore su 351 presenti – le prime Leggi antiebraiche che escludevano da tutte le scuole di ogni ordine e grado tutti gli studenti e tutti gli insegnanti ebrei.

Fuori!

I risultati scolastici di Elena sono brillanti e la bambina merita un premio, che le viene consegnato dalla bidella, ma all’esterno della scuola, confinata, con la comunicazione di non permettersi di mettere ancora piede a scuola “per non profanarla”.
È una ingiustizia che segna tutta la vita, e il dolore che ferisce di più la piccola Elena è l’indifferenza delle sue compagne e della sua insegnante. Nessuno di loro l’ha cercata per dirle semplicemente “mi spiace”.
Solo anni dopo scoprirà da una ex compagna di classe che è stato imposto a tutti di non parlare con i bambini ebrei, di non ricercarli più, di isolarli, perché questa era la volontà di Mussolini.
In Elena coesistevano l’orgoglio di essere ebrei, ancora più forte per il fatto di essere perseguitati ingiustamente e l’umiliazione di essere esclusi dalla scuola, dalle amicizie, dagli sport, da tutto.

 Incontro con un Giusto

Poi venne l’8 settembre, l’occupazione nazifascista, la deportazione.
Era indispensabile disporre di documenti falsi, che non rivelassero anche solo da una parola l’origine ebraica, che permettessero di procurarsi tessere annonarie e quindi generi di prima necessità.
Al papà di Elena ripugnava cercare documenti falsi, sono strumenti che in una società normale servono per commettere atti di delinquenza: non saranno mai utilizzati da una persona per bene!
Elena aveva allora 14 anni e, si rendeva conto che bisognava fare qualcosa, le difficoltà la costrinsero a crescere in fretta, era questione di vita o di morte. Elena ebbe il coraggio di procurare documenti validi per tutta la famiglia all’insaputa di suo padre; dal cugino e da amici fidati sentì il nome di Silvio Rivoir, impiegato infedele in servizio all’Ufficio Anagrafe di Torre Pellice, che produsse segretamente e gratuitamente decine di carte di identità false, per ebrei, partigiani, antifascisti. Scoperto, fu internato in campi di lavoro duro in Germania. Anni dopo, ebbi l’onore di incontrarlo di persona, era il giorno del suo centesimo compleanno, e si erano radunate alcune persone per festeggiarlo: qualche amico, i nipoti, il pastore valdese, una rappresentanza della Comunità Ebraica di Torino con il compito di consegnare un certificato di benemerenza per il suo eroico comportamento. Avevamo appena iniziato a parlare quando il signor Rivoir alzando la mano richiese la parola. L’età e le malattie rendevano difficile e faticoso il suo parlare, ma riuscì a pronunciare quattro parole: “non merito ma dovere”.

Ricorda cosa ti fece Amalek.

Elena e la sua famiglia sopravvissero alla Shoah, nascosti in una cascina, grazie alle famiglie che li ospitarono pur sapendo la loro vera identità, a commissari di polizia che li avvertirono in anticipo dei controlli, dei funzionari che rinunciarono a requisire la radio di casa, ad una cameriera “fascista sfegatata”, che pure non tradì, veri “Giusti tra le Nazioni”.

Perché di ogni persona rimanga il ricordo

Quando nel 2015 la Comunità Ebraica di Torino e le altre istituzioni torinesi, pur tra mille discussioni su organizzazione e costi, aderirono al progetto “stolpersteine”, la posa delle “pietre di inciampo” per segnare le abitazioni da cui erano stati strappati via per essere deportati ebrei, partigiani e antifascisti, Elena partecipò con entusiasmo all’iniziativa. Oggi in Torino, al numero 6 di via Fratelli Carle, quattro pietre posate dall’artista Gunter Demnig ricordano – su richiesta di Elena – la famiglia che abitava lì nel 1943, Alessandro Levi con la moglie Germana Garda, e i ragazzi Luciana e Sergio, arrestati probabilmente per una delazione. Sergio, che all’arresto si dichiarò “scolaro” aveva solo 13 anni, un anno meno di Elena, che poi mi spiegò che, se non ci fosse stata questa iniziativa, il ricordo del ragazzo, suo compagno di giochi. e della sua famiglia, che non aveva altri parenti, sarebbe svanito e nessuno avrebbe mai avuto notizia di queste vite.

 Gratitudine ai partigiani

Elena metteva sempre sentimento e passione in ogni ricerca. Un giorno, a Saluzzo, ci capitò di leggere la lapide in memoria di Mario Garzino, di 16 anni, partigiano, deportato a Mauthausen.
Elena mi insegnò ad avere un pensiero di gratitudine per questo partigiano, per tutti i partigiani, vivi e morti, e di considerare che il loro impegno abbia salvato ciascuna delle persone che vivono oggi, qui e adesso, così come leggiamo dell’Haggadà di Pesach “In ogni generazione ognuno deve considerare se stesso come se fosse personalmente uscito dall’Egitto”: se oggi noi siamo vivi e liberi è anche grazie a loro e al loro sacrificio.

 E dopo…

Dopo la liberazione di Torino e la fine della Seconda Guerra Mondiale Elena riuscì a terminare il Liceo ed a laurearsi in Scienze Agrarie. Ha poi insegnato all’Istituto Tecnico per Geometri di Torino.
In tutte le attività che ha svolto ha agito con severità e senza compromessi, ma contemporaneamente con ironia, dolcezza, magari con una parola in piemontese, e uno scherzo, un sorriso, un sorriso che tutti ricordano bene, molti poi la ricordano in Congressi dell’Unione delle Comunità di tanti anni fa, alternare il canto di HaTikva, il lavoro a maglia, la discussione delle mozioni congressuali.
Si è impegnata con entusiasmo e impegno per collaborare nel governo delle istituzioni ebraiche torinesi.
Elena Ottolenghi era una dei sei fondatori del periodico HaKeillah che erano i tre consiglieri dimissionari nel 1975 (Tullio Levi, Franco Segre e Giuseppe Tedesco) e i tre subentrati (Giorgina Arian Levi, Guido Fubini e appunto Elena Ottolenghi).

In particolare, lavorò per unificare le Opere Pie della Comunità, assumendosene la responsabilità di Presidente. Si batté contro la gestione classista e burocratica dei precedenti Consigli. Raccontava con sincera indignazione di quella volta in cui un generoso donatore regalò all’Orfanotrofio una gran quantità di tessuto assai caro, destinato a produrre vestiti  per i fanciulli poveri, orfani, affetti da malformazioni o imperfezioni fisiche o “morali”, secondo gli obiettivi di assistenza e beneficenza definiti dai rispettivi documenti di Statuto. “Eh no, non va bene – protestò un membro anziano del Consiglio – se li vestiamo nello stesso modo, come faremo a distinguere i nostri figli dai loro?”.

Dai nonni ai nipoti

Elena ha curato la formazione dei ragazzi con diecine e diecine di incontri con le scuole. Lo ha fatto per tanti anni, fino oltre i 90, a volte in collaborazione con l’amica e coetanea Nedelia Tedeschi, presentando le prime pagine dei quotidiani con la pubblicazione del testo delle normative antisemite, rileggendo i propri appunti e raccontando i propri sentimenti.
Elena Ottolenghi ha rappresentato una delle memorie storiche degli anni della shoah e della resistenza, testimonianze che ha tramandato per anni. I suoi diari, che ha consegnato all’Istoreto, e parecchie interviste disponibili in rete porteranno avanti il suo ricordo.
Ora il testimone è passato ai giovani; sono i giovani che hanno assunto la responsabilità di difendere la democrazia e la libertà, dopo aver appreso dai testimoni quanta sofferenza derivi dall’inerzia di fronte ad una ingiustizia.

Nei suoi interventi Elena raccomandava di “resistere al fanatismo” e amava concludere con l’invito “Vi incito a non obbedire sempre”.

Elena Ottolenghi

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