ESSERE VASTI, CONTENERE MOLTITUDINI, TURBARE IL SILENZIO

di Bianca Ambrosio
Mi considero una persona di parole. Nel senso che mi piacciono i vocaboli. Soprattutto se scritti, ma anche parlati, cantati, riscoperti in una messa in scena a teatro. Ed è per questo forse che ho impiegato del tempo ad apprezzare il silenzio e a riconoscerne il valore profondo. In questi ultimi anni ho iniziato a praticarlo nell’intimità della meditazione e poi, sempre più spesso, anche in spazi pubblici, dove forse un tempo avrei preso parola con facilità. Ma più passa il tempo, più sento il monito di un maestro che tramite i suoi lasciti e ancor più il suo esempio di vita, mi ricorda che prima di parlare è sempre utile interrogarsi se vale la pena turbare il silenzio per ciò che si vuole dire. Questo presuppone la consapevolezza del silenzio come condizione particolare di preservazione: quando viene infranto è bene che sia per qualcosa di importante, se non essenziale. Tale monito acquisisce ancora più valore nella nostra epoca, in cui qualsiasi piattaforma e occasione diventa valida per sguinzagliare parole, abbaiare, fare a gara a chi la sa più lunga, parla più forte, ha “davvero” ragione. In quest’atmosfera inquinata, talvolta insostenibile, frequentare di più il silenzio assume nuovo valore, quasi come un antidoto per contrastare il peso grave di parole che viziano qualsiasi discorso, esasperandolo. Una volta una donna di teatro mi ha spiegato che quando si tiene una conferenza, si invita un pubblico ad ascoltare qualcuno che parla, si deve tenere ben presente la responsabilità di quello che si ha da dire: se convochi l’ascolto devi anzitutto avere qualcosa da esprimere, in secondo luogo averne piena coscienza e infine, se possibile, dirlo nel miglior modo possibile. Mi pare che nella nostra contemporaneità il contrario sia vero: parliamo tanto, ci interroghiamo poco sulla responsabilità di quello che diciamo e spesso finiamo per esprimerci a sproposito.
Tuttavia, questa non è una chiamata alla reticenza, al contrario. Nella consapevolezza del valore che può avere il silenzio, è un invito a guardarlo, capirlo, pesarne la responsabilità e, quando serve, turbarlo. Arroccati dietro le nostre trincee di difesa pretendiamo giustamente che si parli e si condannino i torti che sono stati fatti agli ebrei ma siamo poco disposti a pronunciarci sulle ingiustizie inflitte ai palestinesi. Rimaniamo in silenzio davanti a soprusi e dichiarazioni criminali, illudendoci forse che ignorando una parte della storia, questa acquisisca meno peso. C’è una tendenza sempre più comune ad urlare una parte dei fatti omettendone un’altra. Ma come ha scritto Paolo Giordano qualche tempo fa in un testo che trattava proprio di silenzio e guerra, ci comportiamo come “se la denuncia di una sofferenza (di un’ingiustizia, un crimine, aggiungo io) dovesse passare necessariamente per la cancellazione di quella opposta”. Vedere ciò che di orrendo viene fatto in nostro nome fa male, è indubbio. Guardare con onestà d’animo a quello che succede a Gaza a Jenin o a Masafer Yatta sconvolge e mette davanti a un cortocircuito identitario. Parlarne richiede forza e coraggio, soprattutto quando le circostanze ci colpiscono direttamente e continuamente. Ma tacendo quella realtà, girandosi dall’altra parte e non volendola anzitutto guardare e poi possibilmente contrastare, facciamo un torto a noi stessi, macchiandoci di ipocrisia. Ci sono momenti in cui è giusto coltivare e preservare il silenzio, altri in cui non solo vale la pena turbarlo, ma è imperativo romperlo. Con la consapevolezza che denunciare, prendere posizione, indignarsi non significa annullare quello che noi stessi abbiamo subito. Prendendo in prestito un verso di Walt Whitman: possiamo essere vasti, contenere moltitudini e addirittura avere identità che a volte si contraddicono.