Fare propria la Nakba
di Alessandro Treves
MOSTRA
Come esprimere l’attaccamento per Israele senza accettare l’esclusivismo etnico in cui il paese sembra inesorabilmente avvitarsi? Se lo chiedono Samuel, che è cresciuto nel movimento giovanile ortodosso Hineni; Tahlia, passata da quello riformato Netzer a coordinare il gruppo (ebraico) Stand Up, di attivisti del sociale; Seri, che è stata dirigente dei giovani sionisti laburisti in Australia; e così, ognuno a modo suo, Morris, Max e gli altri di Melbourne e di Sydney delle cui posizioni racconta Judy Maltz (su HaAretz) dopo le ultime elezioni, in cui il partito dei Verdi australiani, storicamente critici delle politiche dello stato ebraico, è molto cresciuto, anche col voto di tanti giovani ebrei.
Più avanzato il processo di disaffezione fra le nuove generazioni di ebrei americani, molti dei quali hanno ormai difficoltà a conciliare l’Occupazione ed il trattamento riservato ai palestinesi con la narrativa sionista riproposta anche dalla componente più progressista dell’establishment ebraico. In questo seguono l’evolversi delle sensibilità dei loro coetanei non ebrei: secondo l’ultimo dei sondaggi del centro di ricerche Pew, le simpatie complessive degli americani, ancora marcatamente sbilanciate a favore degli israeliani fra gli anziani, cominciano per la prima volta a pendere dalla parte dei palestinesi nella fascia d’età fra i 18 e i 30 anni. La misura del sondaggio è grossolana e non dà conto della fondamentale ignoranza di gran parte degli intervistati; ed anche per la minoranza dei meglio informati, l’empatia per l’uno e per l’altro dei due popoli in conflitto si basa solitamente su schematiche notizie di attualità più che su una condivisione anche parziale ed occasionale del vissuto altrui.
Un piccolo passo per avviare questa condivisione lo possono favorire mostre come Ecmnesia, allestita da Barak Rubin e Livia Tagliacozzo con Micol Di Veroli nel suggestivo spazio – una chiesa sconsacrata – della galleria Cosmo, a Trastevere. Ecmnesia ci proietta nel vissuto mnestico di quattro artisti diversi tra loro, Samah Shihadi, Mai Dass, Tigist Yosef Ron e Dor Guez, che hanno in comune una memoria segnata dalla perdita.
Nelle scene disegnate a carboncino da Samah Shihadi la perdita si esprime visivamente nel contrasto fra la precisione del tratto che ricrea il villaggio natale di Sha’ab, in Galilea, e lo sfumato sfuggente e indefinito delle figure umane, forse a indicarne il movimento, oppure lo svanire del ricordo. Come offuscati sono per la stragrande maggioranza degli israeliani gli eventi del ’48 a Sha’ab. Conquistato senza colpo ferire dall’Haganà, la maggior parte degli abitanti furono espulsi dal villaggio e costretti a rifugiarsi in quelli vicini di Sakhnin e Majd al-Krum; ma Sha’ab non venne raso al suolo, e fu usato invece per ospitare a sua volta i profughi espulsi da altre cinque località. Negli anni successivi, i tentativi di ritorno degli abitanti originari si scontrarono con la resistenza di alcuni dei nuovi venuti, i cui villaggi erano stati distrutti. Molti ciononostante riuscirono gradualmente a tornare, sia pure costretti dalla Storia a recuperare faticosamente parte del proprio strappandolo a chi ci si era fermato avendo perduto il suo. Ora Sha’ab è una cittadina di 7000 abitanti; Samah vive a Haifa, ha esposto al Museon Israel, allo Yasser Arafat Museum a Ramallah, a Parigi, in Germania, ha ricevuto un premio prestigioso che include una personale al Museo d’Arte di Tel Aviv e le sue opere sono commercializzate da una galleria di Dubai.
La perdita è invece astrazione simbolica negli oli su tela di Mai Dass, altra trentenne palestinese di nazionalità israeliana. Nei suoi quadri i colori intensi ed esattamente delimitati e la ricchezza quasi iperrealistica del dettaglio aggiungono forza ad associazioni evocative che rimangono però irrisolte: che vorrà dire il manto della donna avvolta dal niqab che diventa un lungo tappeto? O le tre macchioline di sangue sul lenzuolo candido, offerto in un piatto d’ottone? E le due donne, forse madre e figlia, legate da un’unica treccia, che ricomincia dove dovrebbe finire?
Mentre in bianco e nero sono i disegni, da lontano sembrano fotografie molto sfuocate, di Tigist Yosef Ron, che è arrivata bambina in Israele dall’Etiopia negli anni ’80. Raffigurano persone di famiglia, e sono tratti da vere fotografie, riprese in ambienti privi di elementi salienti, il centro per gli immigrati di Atlit e la casa di Ra’anana. Ma le fotografie originali sono state ricombinate per sottrazione e per perdita di dettaglio, fino ad estrarne le sagome delle persone, forse di epoche e generazioni diverse, accomunate, sembra, dalla perdita della memoria. Rimangono solo loro, senza nulla.
La memoria è esplicitamente verbale nel video “Sabir” di Dor Guez, unico uomo fra i quattro “artisti” della mostra. E usare questo maschile collettivo suona ancora più sbagliato, perché il video consta di una specie di mormorato monologo di sua nonna Samira. Figlio di un ebreo tunisino e di una palestinese la cui famiglia cristiana abitava a Jaffa, Guez ha un PhD dall’università di Tel Aviv, insegna all’Accademia Bezalel dove dirige il Master in Fine Arts e vive di nuovo a Jaffa, donde proveniva sua nonna. Nel video si vede soltanto un tramonto sul mare di Jaffa, un cielo fermo dai colori infuocati, il periodico battere delle onde in un primo piano già buio, ed occasionalmente alcune piccole ombre forse di bagnanti e surfisti, che mal si distinguono dai frammenti scrostati dell’intonaco della chiesa sconsacrata. La voce dolce di nonna Samira rievoca il tempo della sua adolescenza ed in particolare la fuga, nell’incalzare delle voci su una prossima conquista di Jaffa, verso l’apparentemente più sicura città palestinese di Lod. Altre famiglie fuggirono a Gaza, altre a Haifa, altre in Giordania o in Libano. Loro si rifugiarono a Lod, che venne conquistata dalle forze del nuovo stato ebraico poco dopo. Non potendo tornare a Jaffa, abbandonata senza opporre resistenza, persa l’azienda del padre e precipitati da un’esistenza agiata ad una di povertà e disoccupazione, Samira non si sofferma sui 63 anni trascorsi come profuga “interna” all’interno dello stato ebraico, ma torna ad aggiungere considerazioni e commenti su quei mesi cruciali della dislocazione, quei 15 chilometri fatali. Chi ha sottotitolato il video ha usato lo stampatello per le frasi pronunciate in ebraico ed il corsivo per quelle in arabo, e così lo spettatore, senza capirne i suoni, può leggerne l’alternarsi: si percepisce come Samira creda di non essersi spiegata bene, ed allora ci riprova nell’altra lingua, ma poi nella traduzione in inglese sono all’incirca le stesse parole. E in questo continuo scambiarsi di posto, fra arabo ed ebraico, nella fissità appena smossa dal risciacquo del mare sotto il tramonto infuocato, è racchiuso il destino dei due popoli, mescolatisi – almeno lì – nelle carni di suo nipote.
Trieste e Tel Aviv